Storia di Sinbad il marinaio-Parte V
Dopo di che Sindbad ordinò che venisse servita la cena, e quando tutti ebbero mangiato e bevuto,fece dare, come al solito, cento dinàr a Sindbad il Facchino e tutti se ne andarono per i fatti loro continuando a meravigliarsi di ciò che avevano udito. Non appena sorse il giorno, Sindbad il Facchino si levò, recitò la preghiera del mattino e si presentò a casa di Sindbad il Marinaio, il quale lo accolse cortesemente e lo fece sedere accanto a sé, fino a che non arrivarono tutti gli altri invitati. Mangiarono, bevvero e chiacchierarono allegramente; quindi il loro ospite cominciò il racconto di “
I piaceri che godetti a Bagdad” disse “furono tali da cancellare dalla mia memoria tutte le pene e i mali che avevo sofferti, senza però togliermi il desiderio di fare nuovi viaggi. Comprai perciò delle mercanzie, le feci imballare e caricare sopra dei carri e partii per recarmi al primo porto di mare. Là, per non dipendere da un capitano e per avere un naviglio al mio comando, mi divertii a farne costruire uno e ad equipaggiarlo a mie spese. Appena terminato, lo feci caricare, e m’imbarcai: ma siccome non avevo merci sufficienti per caricarlo interamente, accolsi con me parecchi mercanti di diverse nazioni con le loro mercanzie. Facemmo vela col primo vento favorevole e prendemmo il largo. Dopo una lunga navigazione, approdammo su un’isola deserta in cui trovammo l’uovo di un Rukh di una grandezza pari a quello che vi ho già descritto. L’uovo era vicino a schiudersi e racchiudeva un piccolo Rukh, il cui becco cominciava già a comparire. I mercanti, che s’erano imbarcati sulla mia nave e che erano scesi a terra con me, ruppero l’uovo a gran colpi di scure e fecero un’apertura da cui estrassero il piccolo Rukh e lo fecero arrostire. Io li avevo seriamente avvertiti di non toccare quell’uovo, ma loro non mi vollero obbedire. Avevano appena finito il loro pasto gustoso, quando apparvero in aria due grosse nuvole. II capitano, che avevo ingaggiato per condurre la nave, sapendo per esperienza ciò che quello significasse, esclamò che erano il padre e la madre del piccolo Rukh, e ci fece premura perché c’imbarcassimo al più presto, per evitare il malanno che prevedeva. Seguimmo il suo consiglio in gran fretta e ci rimettemmo in mare. Intanto i due Rukh si avvicinavano, mandando grida spaventevoli, che raddoppiarono quando ebbero visto lo stato in cui era ridotto l’uovo. Con il proposito di vendicarsi, ripresero il loro volo dalla parte da cui erano venuti e scomparvero per qualche tempo, mentre noi aprivamo al vento tutte le vele per allontanarci al più presto ed evitare ciò che non mancò di accadere. Essi tornarono, e vedemmo che ciascuno teneva fra gli artigli un macigno di grandezza enorme. Quando furono proprio sopra la nave, si arrestarono, e, librandosi in aria, uno d’essi lasciò cadere il macigno che teneva, ma, per l’abilità del timoniere, che fece spostare il naviglio con un colpo di timone, esso non ci colpì.
L’altro uccello, per nostra sventura, lasciò cadere il suo macigno proprio in mezzo alla nave, così da romperla e fracassarla in mille pezzi. I marinai e i passeggeri furono tutti schiacciati e sommersi. Io pure fui sommerso, ma, ritornando a galla, ebbi la fortuna di afferrarmi a una tavola. Così aiutandomi ora con una mano ora con l’altra, senza staccarmi dall’appoggio che tenevo, con il vento e con la corrente, che erano favorevoli, giunsi infine a un’isola, la cui sponda era molto scoscesa. Ciò nonostante sormontai quell’ostacolo e mi salvai. Mi sedetti sull’erba per rimettermi un poco dalla mia stanchezza; poi mi alzai, inoltrandomi nell’isola per un giro di ricognizione. Mi sembrò di essere in un giardino delizioso; vedevo dappertutto alberi, quali carichi di frutta, quali di fiori, e ruscelli di un’acqua dolce e chiara, che formava bellissime anse. Mangiai quella frutta eccellente e bevvi di quell’acqua squisita. Venuta la notte, mi coricai sull’erba, in un posto molto comodo, dove però non potei dormire un’ora intera di seguito, perché il mio sonno era spesso interrotto dalla paura di vedermi solo in un luogo deserto. Passai le lunghe ore di veglia a dolermi ed a rimproverarmi di non essermene restato a casa. Tali riflessioni mi desolarono tanto che arrivai a formulare disegni contro la mia propria vita, ma la luce del giorno dissipò la mia disperazione. Mi alzai e camminai fra gli alberi, con qualche apprensione.
Quando mi fui un poco inoltrato nell’isola, scorsi un vecchio che mi parve molto malato. Era seduto sulla riva di un ruscello e immaginai a prima vista che fosse qualcuno che avesse fatto naufragio come me: mi accostai, lo salutai, ed egli mi fece solo un lieve inchino con la testa. Gli domandai che cosa facesse là, ma invece di rispondermi, mi chiese a segni di prenderlo sulle spalle e di portarlo al di là del ruscello, facendomi capire che voleva cogliere della frutta. Credetti che avesse bisogno di quel favore e quindi essendomelo caricato sulle spalle, passai il ruscello. “Scendete”, gli dissi allora, abbassandomi per facilitargli la discesa. Ma invece di lasciarsi andare a terra (io rido ancora ogni volta che ci penso), quel vecchio che m’era sembrato decrepito, mi passò leggermente attorno al collo le sue gambe (e vidi che aveva una pelle simile a quella delle vacche) e si pose a cavalcioni sulle mie spalle, stringendomi così forte che pensai volesse strozzarmi. Lo spavento s’impossessò di me da quell’istante, e caddi svenuto. Malgrado il mio svenimento, quell’ingombrante vecchietto rimase sempre attaccato al mio collo e scostò soltanto un poco le gambe per darmi agio di ritornare in me. Quando mi fui ripreso mi puntò sul petto uno dei piedi, e con l’altro mi percosse il fianco, con tanta energia che mi obbligò a rialzarmi mio malgrado. Quando fui in piedi, mi fece camminare sotto alcuni alberi, obbligandomi a fermarmi per cogliere e mangiare la frutta che incontravamo, e non lasciandomi più per tutto il giorno; quando venne la notte, volli riposarmi, ma egli si stese per terra con me, sempre attaccato al mio collo. Così ogni mattina non mancava di scuotermi per svegliarmi, mi faceva alzare e camminare, spronandomi coi suoi piedi. Immaginatevi, signori, la mia pena, vedendomi caricato di quel fardello senza potermene disfare!
Un giorno trovai sulla via parecchie zucche secche, ne presi una assai grossa, e dopo averla ben pulita, vi spremetti dentro il succo di parecchi grappoli d’uva, frutto abbondantissimo nell’isola. Quando ne ebbi riempita la zucca, la posai in un luogo dove ebbi l’abilità di farmi condurre dal vecchio parecchi giorni dopo. Presi la zucca, e portandola alla bocca, bevvi un eccellente vino, che mi fece dimenticare per qualche tempo il dolore da cui ero oppresso. Ciò mi diede vigore, anzi ne fui così rallegrato, che mi misi a cantare e a saltare mentre camminavo. Il vecchio, essendosi accorto dell’effetto prodotto da quella bevanda, mi fece segno di dargliene da bere: gli presentai la zucca, la prese, e, poiché la bevanda gli parve gradevole, la vuotò fino all’ultima goccia. Ve n’era quanto bastava per ubriacarlo; presto, andatigli alla testa i fumi del vino, così rallegrato, si mise a cantare a modo suo e ad agitarsi sulle mie spalle. Le scosse che lui stesso provocava gli fecero rigettare quello che aveva nello stomaco, e le sue gambe si rilassarono a poco a poco. Vedendo che non stringeva più, lo gettai a terra, dove rimase immobile. Allora presi una grossissima pietra e con quella gli schiacciai la testa. Provai una grande gioia per essermi liberato per sempre da quel maledetto vecchio e camminai verso la riva del mare, dove trovai alcuni uomini di una nave, che erano approdati per fare scorta d’acqua e prendere un pò di riposo. Furono estremamente meravigliati di vedermi e di sentire i particolari della mia avventura. “Voi”, mi dissero, “eravate caduto nelle mani del vecchio del mare, e siete il primo che non ha strangolato. Infatti non ha mai abbandonato coloro che aveva potuto sottomettere, se non dopo averli soffocati, ed ha reso questa isola famosa per il gran numero di persone che ha ucciso. I marinai e i mercanti che vi scendono non osano inoltrarvisi, se non in buona compagnia.”
Dopo avermi informato di queste cose, mi condussero sul loro naviglio e il capitano mostrò sommo piacere di ricevermi, quando seppe tutto ciò che m’era accaduto. Fece vela di nuovo, e dopo alcuni giorni di navigazione approdammo al porto di una grande città, le cui case erano fabbricate in buona pietra. Uno dei mercanti della nave, che mi era amico, mi obbligò ad accompagnarlo, mi condusse in un alloggio destinato a servire da ricovero ai mercanti stranieri. Mi diede un gran sacco; poi, avendomi raccomandato a certe persone della città che avevano un sacco come me e avendole pregate di condurmi con loro a raccogliere i frutti di cocco, mi disse: “Andate, seguiteli, fate come loro, e non vi allontanate perché mettereste in pericolo la vostra vita”. Mi diede dei viveri per la giornata e partii con quella gente.
Giungemmo in una grande foresta di alberi altissimi, il cui tronco era tanto liscio che non era possibile trovarvi un appiglio per salire fino ai rami dove era il frutto. Erano alberi di cocco, da cui volevamo far cadere i frutti per riempirne i nostri sacchi. Entrando nella foresta vedemmo un gran numero di grosse e piccole scimmie, che fuggirono davanti a noi appena ci scorsero, salendo fino sulla cima degli alberi con una meravigliosa agilità. I mercanti raccolsero delle pietre e le gettarono con tutte le loro forze contro le scimmie. Imitai il loro esempio, e vidi che le scimmie, vedendo ciò che facevamo, coglievano con ardore i frutti e ce li gettavano con gesti che indicavano il loro sdegno e la loro animosità. Noi raccoglievamo i frutti e gettavamo di tanto in tanto delle pietre, per irritare le scimmie. Con questo stratagemma riempimmo i nostri sacchi di frutti che sarebbe stato impossibile procurarci in altro modo. Quando i nostri sacchi furono pieni ce ne tornammo in città, dove il mercante mi pagò il valore del sacco di cocco che avevo portato. “Continuate”, mi disse, “andate ogni giorno a fare la stessa cosa, fin tanto che non abbiate guadagnato abbastanza per poter tornare a casa vostra.” Lo ringraziai del buon consiglio, e a poco a poco, a forza di raccogliere cocco, misi da parte una somma considerevole. La nave sulla quale ero venuto, aveva fatto vela con alcuni mercanti che l’avevano caricata di cocco. Attesi l’arrivo di un’altra, che approdò ben presto al porto della città per fare un carico simile. Vi feci imbarcare sopra tutti i frutti da me raccolti, e quando fu pronta a partire, andai a prendere commiato dal mercante a cui dovevo tanta riconoscenza. Egli non potè imbarcarsi con me, perché non aveva ancora terminato i suoi affari. Ci mettemmo in viaggio e prendemmo la via dell’isola dove cresceva il pepe in abbondanza. Di là giungemmo all’isola di Comari dove si trova la miglior specie di legno d’aloe, e i cui abitanti si sono fatti una legge inviolabile di non bere vino e di non tollerare alcun luogo di prostituzione. Barattai il mio cocco in quelle due isole con pepe e legno d’aloe, e mi recai con altri mercanti alla pesca delle perle, dove ingaggiai dei palombari per conto mio. Essi pescarono per me un gran numero di perle grossissime e perfettissime. Poi, soddisfatto mi rimisi in mare con un’altra nave che approdò felicemente a Bassora: di là ritornai a Bagdad, dove ricavai grandissime somme di denaro dal pepe, dal legno d’aloe e dalle perle che avevo portate. Distribuii in elemosina la decima parte del mio guadagno, come avevo fatto al ritorno dagli altri viaggi, e cercai di riprendermi dalle fatiche con ogni sorta di divertimenti.”
Terminate queste parole, Sindibàd fece dare cento dinar a Hindbàd, il quale si ritirò con tutti gli altri convitati. L’indomani la stessa compagnia si trovò in casa del ricco marinaio, che, dopo aver fatto servire, come nei giorni precedenti, un pranzo eccellente, fece la narrazione del suo sesto viaggio.
- Fiaberella