Griselda
Ai piè delle montagne famose dove il Po scaturisce dalle sue sorgenti ricche di giuncheti, riversando poi nel seno delle campagne vicine le sue acque, viveva un principe giovane e valoroso, amato da tutti.
Il Cielo aveva profuso su di lui ogni più rara virtù,tutti quei doni che di solito concede solo a chi gli è caro o ai grandi re.
Così dotato nel corpo e nello spirito, egli crebbe robusto, accorto, agile nel maneggiare le armi e appassionato per le arti belle.
Amò i combattenti e la vittoria, le grandi imprese, gli atti valorosi, insomma, tutto quel che nella storia
rende famosi; ma il suo nobile cuor, ricco di affetti, mirò ancor più alla gloria di rendere felici i suoi soggetti.
Per un così bel carattere era adombrato da una cupa malinconia che spingeva quel buon principe a vedere in ogni donna la falsità e l’inganno.
Per quando una fanciulla fosse adorna dei più alti meriti, gli appariva immancabilmente ipocrita, piena di orgoglio e di ambizione, un vero nemico avido soltanto di dominare senza ritegno il disgraziato uomo che si fosse invaghito di lei.
Il vedere intorno a se tanti sposi infelici e sottomessi alle loro mogli, aveva rafforzato in lui l’avversione per le donne; ed egli si ripromise con gran giuramenti di non prender moglie quando anche il Cielo, che lo prediligeva tanto, avesse creato apposta per lui un’ altra Lucrezia romana.
Ogni giorno, dopo aver dedicato il mattino agli affari e aver saggiamente diretto tutto quello che era necessario alla felicità dello Stato, dopo avere difeso i diritti dell’orfano e della vedova o abolito qualche imposta non strettamente necessaria, destinava alla caccia il resto del suo tempo, perché gli orsi, i cinghiali e le altre fiere, anche pieni di furia e d’ira pazza, gli davano assai meno da temere di una bella ragazza.
Frattanto i suoi sudditi, desiderosi che egli avesse un successore capace di governarli un giorno con eguale dolcezza, lo pregavano continuamente di prender moglie e un bel giorno si recarono tutti in processione al palazzo per fare l’ultimo sforzo.
Un oratore di grande loquela e austera apparenza, il migliore che ci fosse allora nel regno, disse tutto quello che si poteva dire in una simile occasione, insisté sul viso desiderio della popolazione di vedere sorgere dal principe una stirpe felice che rendesse florido lo Stato, e, per finire, aggiunse che vedeva nascere da quelle nozze un astro così fulgido da far impallidire ogni altro.
Con maggior semplicità e con voce assai meno tonante, il principe rispose: “Lo zelo ardente con il quale oggi cercate di indurmi al matrimonio mi è grato e testimonia il vostro amore per me; ne sono commosso e vorrei farvi contenti domani stesso. Ma a parer mio il prender moglie è una faccenda in cui la prudenza non è mai troppa. Le fanciulle, finché rimangono nella loro famiglia, son tutte virtù e bontà, tutte sincerità e pudore; ma, appena sposate, gettano la maschera, dimenticano la saggezza e badano soltanto a fare quel che loro piace. L’una, di umor pestifero, brontolona, intrattabile, diventa una bigotta insopportabile; l’altra sentenzia, chiacchiera, fa moine, sgambetta, insomma, è una terribile civetta; la terza si appassiona follemente per le arti belle, critica spietata ogni artista di fama rinomata e non si accorge d’essere soltanto una saccente; la quarta infine bada solo al giuoco, sperpera patrimoni in quello spasso, i gioielli, il mobilio, e, a poco a poco, manda tutto a patrasso. I loro modi di procedere sono vari e diversi, ma tutte sono d’accordo in una cosa: nel volere dettar legge. Ed io sono convinto che nel matrimonio è impossibile essere felici se si vuole essere in due a comandare. Se dunque desiderate che io m’impegni a prender moglie, cercatemi una fanciulla senza orgoglio e senza vanità obbediente, paziente, remissiva, e quando l’avrete trovata la sposerò”
Dopo aver pronunziato quel bel discorso morale, il principe montò bruscamente a cavallo e corse a briglia sciolta verso la sua muta di cani che lo attendeva in mezzo alla pianura, senza più darsi pensiero dell’oratore.
Galoppò per prati e per campi e raggiunse i suoi cacciatori sdraiati sull’erba verde; tutti si levarono in piedi alla sua vista e col suono dei corni fecero tremare di paura gli abitatori della foresta.
I cani corrono abbaiando qua e la tra i giuncheti, stanano le fiere, tornano con occhi ardenti ai loro custodi e li guidano verso di esse.
Il principe, poiché tutto era pronto, diede l’ordine di cominciare la caccia e di lanciare i cani sulle tracce del cervo.
Risuonano i corni, nitriscono i cavalli, i latrati dei cani riempiono la foresta moltiplicarsi dall’eco, e tutti s’internano nel profondo del bosco.
Per caso o per destino, il principe prese un sentiero traverso, sul quale nessuno lo seguì più.
Avanza e più si allontana dai suoi, ed infine si trova così lungi dalla caccia da non udire più il suono dei corni ne l’abbaiare dei cani.
Il luogo a cui lo condusse la sua bizzarra avventura, illuminato dal riflesso dei ruscelli e cupo di folta verdura, colmava lo spirito di un segreto timore; la natura semplice e schietta appariva così bella e pura che mille volte egli benedisse il momento in cui si era smarrito.
Pieno dei dolci pensieri che sanno suscitare i boschi, le acque e i prati, si sentì a un tratto colpito negli occhi e nel cuore dalla più gentile e tenera vista che sia apparsa sotto la volta del cielo: una pastorella, seduta al margine di un rivo, filava e custodiva il suo gregge facendo girare il fuso con mano esperta.
Ella avrebbe commosso il cuore di una belva: la sua fronte era candida al par del fiordaliso, la natural freschezza del suo viso era stata protetta dall’ombra della selva.
A un sorriso infantile il suo labbro si apriva, e gli occhi, a cui le ciglia brune facevan velo, erano ancor più azzurri dell’azzurro del cielo e avean luce più viva.
Il principe, scivolando tra le piante, contemplò commosso quella bellezza: ma il rumore dei suoi passi fece volgere la fanciulla e, quando ella si vide scoperta, un vivo rossore rese ancor più intenso l’incarnato delle sue gote e il pudore si soffuse sul suo volto.
Dietro l’innocenza di quel graziosissimo riserbo, il principe scorse una dolcezza, una sincerità, una schiettezza che gli apparivano in tutto il loro splendore e quali egli non avrebbe mai creduto possibili in una donna.
Colto da un timore a lui sconosciuto, le si avvicinò e, più timido di lei, le disse con voce tremante di essersi smarrito, chiedendole se non avesse veduto passare dei cacciatori.
“Signore mio,” ella rispose, “nessuno è passato per questa solitudine se non voi; ma non sgomentatevi, saprò rimettervi sul giusto cammino.”
“Non so come ringraziare la Provvidenza di questa avventura” disse il principe. “Da molto tempo frequento questi luoghi ma, fino ad oggi, non avevo visto quello che essi avevano di più delizioso.”
Frattanto la pastorella si accorse che il principe si curvava sulla sponda del rivo per placare la sete della corsa.
“Signore, attendete un momento” disse; e correndo agilmente verso la sua capanna, ne prese una tazza e la porse a lui tutta sorridente.
Un prezioso vaso di agata o di cristallo, venato d’oro e lavorato dal più abile artefice, non sarebbe parso più bello, al principe, del piccolo vaso di coccio offertogli dalla pastorella.
Insieme attraversarono boschi, dirupi e torrenti per trovare la via che avrebbe condotto il principe alla città.
Questi, da parte sua, guardava attentamente i luoghi sconosciuti per cui passava, fissandoseli nella memoria così che, reso ingegnoso dall’amore, ne tracciò idealmente una vera carta topografica.
Infine un fresco bosco die ristoro a due viandanti con la sua frescura, e la, tra i fitti rami lavorati a traforo, egli vide levarsi in mezzo alla pianura il suo palazzo con i tetti d’oro.
Prese commiato dalla fanciulla allontanandosi da lei con il cuore afflitto da un vivo dolore, e tuttavia rallegrato dal ricordo della dolce avventura.
Ma il giorno dopo sentì intimamente la sua ferita e fu pieno di tristezza e di noia.
Appena gli fu possibile, tornò a caccia e, molto accortamente, si liberò del suo seguito fingendo di smarrirsi ancora nella selva.
Gli alberi e le cime dei monti, che aveva osservato con tanta attenzione, e l’intuito del suo cuore innamorato lo guidarono così bene che, nonostante i mille sentieri diversi, ritrovòla dimora della pastorella.
Seppe così che si chiamava Griselda, che le rimaneva solo il padre, che entrambi vivevano serenamente del latte del loro gregge e che, senza ricorrere ai negozianti della città si vestivano con la lana delle loro pecore, da lei filata e tessuta.
Sempre di più il principe si sentiva attratto verso la fanciulla, convinto che la leggiadria del suo volto rifletteva quella della sua anima.
Fu felice che il suo primo palpito di amore avesse un così nobile oggetto e, senza perder tempo, il giorno stesso radunò il suo consiglio e così parlò: “Signori miei, io sto infine per sottomettermi alle leggi del matrimonio come voi desiderate. Non prendo moglie in paese straniero ma tra voi, bella, saggia, di buona nascita, come più di una volta hanno fatto i miei avi. Quando sarà il momento vi avvertirò”
La notizia vi divulgò dappertutto ed è difficile dire con quando ardore si manifestò l’allegrezza pubblica.
Più contento di tutti fu però l’oratore che, con il suo discorso roboante e patetico, pensò d’essere davvero il solo autore di quella gioia annunciata con impeto profetico.
E si dié a proclamar con insistenza: “Nulla può opporsi, o genti, alla grande eloquenza.”
Ma il più bello fu il vedere l’ inutile fatica delle ragazze per meritar la scelta del principe loro signore, il quale, come aveva sempre detto e ripetuto, si sarebbe lasciato sedurre solo da un comportamento semplice e modesto.
Tutte quante avevano mutato l’abito e il modo di fare: tossicchiavano devotamente, facevan la voce dolce, stavano a occhi bassi, avevano abbassato di una buona spanna le loro pettinature, e si eran cuciti abiti accollati e con le maniche così lunghe da lasciar spuntare appena la punta delle dita.
La città era in gran preparativi per il giorno delle nozze: chi costruiva carri allegorici così belli e bene inventati che la cosa meno fastosa era l’oro scintillante a profusione; chi innalzava grandi palchi per godere comodamente lo spettacolo; archi trionfali sorgevano a celebrare le vittorie del principe guerriero e la vittoria dell’amore su di lui.
Qui si fabbricano quei fuochi che sbigottiscono la terra con il fragore di un innocente tuono e abbelliscono il cielo di mille nuovi astri, ovverosia i fuochi artificiali; la si mette insieme un grazioso balletto; altrove si allestisce uno spettacolo d’opera in cui figureranno mille divinità il più bello che sia mai apparso in Italia dove, com’è noto, risuonano dappertutto arie melodiose.
Ed ecco arrivare il giorno del matrimonio.
L’aurora di un dolce mattino, sul fondo di un ciel puro e schietto, disteso aveva l’oro ed il turchino, quando ansiose balzarono dal letto le ragazze, e d’un tratto, con comune allegria, si risvegliò la gente in ogni via.
Dovunque si diffuse un suon di trombe e pifferi, di flauti e cornamuse e per tutti i dintorni odi tamburi, clarinetti e corni.
Alla fine il principe uscì dalla corte salutato da un lungo grido di gioia, ma tutti furono sorpresi quando lo videro saltar a cavallo e prender la via della foresta come faceva ogni giorno quando andava a caccia.
“Ahimé” disse la gente,” ecco che la sua passione lo riprese e il piacere della caccia prevale sul suo stesso amore. Non c’è nulla da fare.”
Egli attraversò rapidamente la pianura, raggiunse il piede dei monti e penetrò nel bosco con grande meraviglia del suo seguito che gli teneva dietro a fatica in quella corsa.
Dopo aver percorso i mille sentieri ben noti al suo cuore innamorato, il principe trova infine la capanna in cui abita la fanciulla.
Griselda, che aveva sentito parlare delle nozze principesche, e aveva indossato il suo abito migliore per assistervi, ne usciva in quel momento.
“Dove corri così agile e lieve?” le chiese il principe movendole incontro e guardandola con profonda tenerezza.
La fanciulla, stupita, non rispose e si fermò dinanzi a lui.
“Non ti affrettare tanto, mia cara pastorella” proseguì allora il principe sorridente, “le nozze a cui ti avvii, e di cui io sono lo sposo, non si potrebbero fare senza di te. Si, io ti amo, e ti ho scelta fra mille fanciulle per passare al tuo fianco il resto della mia vita, almeno se non vorrai respingere la mia offerta e mi accetterai come sposo.”
“Oh, signore” rispose lei, “non posso credere di essere destinata a tanta gloria, certo volete prendervi giuoco di me.”
“Sono sincero,” rispose il principe. “Tuo padre mi ha già dato il suo consenso, acconsenti dunque anche tu. Ma, affinché duri fra noi una pace serena e sicura, giurami che non avrai altra volontà che la mia.”
“Lo prometto e lo giuro” disse allora la pastorella. “Se avessi sposato l’uomo più umile del nostro villaggio, gli avrei obbedito in tutto, e quel giogo sarebbe stato certo dolce per me. Tanto più dovrò dunque farlo ora che trovo in voi il mio principe, il mio signore e il mio sposo.”
Così il principe fece la sua dichiarazione, e, mentre tutta la corte applaude alla sua scelta, egli prega la pastorella di lasciarsi vestire e adornare come devono essere le spose dei re.
Le dame che avevano questo incarico entrano allora nella capanna spiegando tutta la loro abilità nel drappeggiare attorno con grazia i ricchi indumenti che le erano stai preparati.
Frattanto ammiravano con quanta arte la dignità possa nascondersi dietro la povertà e quella rustica capanna coperta e ombreggiata da un grande platano sembra loro un soggiorno incantato.
Poi, in gran pompa, la fanciulla uscì dalla capanna: tutti lodarono a gara la sua bellezza e il suo abbigliamento, ma il principe non poté fare a meno di rimpiangere un poco l’innocente semplicità della pastorella di un tempo.
Sulla carrozza, tutta di gemme e d’or lucente, la pastorella siede con maestà il principe vi monta fieramente
e, colmo il cuor di giubilo, presso il suo fianco sta.
Ne gli sembra di avere minor gloria che se andasse in trionfo dopo una gran vittoria.
Viene dietro di loro la corte, anch’essa piena di decoro, bellamente ordinata come d’ognun richiede il grado e la casata.
La città intera si era riversata nelle campagne e, avvertita della città del principale, attendeva con impazienza il suo ritorno.
Ed eccolo che arriva: la carrozza avanza a fatica tra folla che si apre al passaggio; i cavalli, storditi dalle grida di gioia, si impennano, si slanciano, indietreggiano. Infine tutti arrivano al tempio e la, con solenne promessa, i due sposi uniscono i loro destini.
Che dire dei mille divertimenti che li attendevano al palazzo?
Danze, giuochi, corse, tornei diffusero dappertutto l’allegria, finché giunta la sera, tutti andarono a dormire.
Il giorno dopo, ogni Stato della regione inviò i suoi magistrati a congratularsi con il principe e la principessa in lunghi e ben congegnati discorsi.
Griselda, circondata dalle sue dame, senza mostrare alcuna meraviglia, li ascoltò da principessa e da principessa rispose loro.
Fece tutto con tanta assennatezza che il Cielo sembrò aver riservato i suoi doni ancor più sul suo spirito che sulla sua persona.
In poco tempo prese i modi del gran mondo in cui viveva, e, fin dal primo giorno, s’informò cos’è bene sul carattere delle varie dame di corte che riuscì a tenerle a bada ancor più facilmente delle sue pecorelle di un tempo.
Prima che l’anno terminasse, il cielo volle benedire quell’unione fortunata.
Non nacque un principino, come avrebbero desiderato, ma la principessina era tanto graziosa che tutti non pensavano che a lei.
Il padre veniva a vederla ogni momento e la mamma non si saziava di contemplarla.
Volle allattarla lei stessa affermando che sarebbe stato un tradimento rifiutarsi a un compito che la piccolina le chiedeva con le sue grida.
Ma, o che si fosse un poco raffreddata nel principe la fiamma del suo primiero ardore, o che il suo malumore
d’un tempo ritornasse all’impensata, fatto sta che d’un tratto fu oscurata la pace del suo cuore.
In tutto quel che fa la principessa egli sospetta inganni, vede insincerità e certo per falsità, si mostra così dolce e sottomessa.
Il suo spirito inquieto da di volta, non crede più alla sua felicità e, a dir la verità ogni sospetto ed ogni dubbio ascolta.
Così il principe cominciò a osservare la principessa, a contrariala, a turbarla in mille modi.
‘Non voglio lasciarmi ingannare,’ pensava, ‘Se le sue virtù sono vere, trattandola duramente non farà che rafforzarle e renderle palesi.’
La tenne chiusa nel palazzo, lontana da tutti gli svaghi di corte, e lasciò filtrare solo un fil di luce nella stanza in cui la teneva isolata.
Convinto che gli ornamenti e i gioielli fossero per una donna l’arma del potere, le richiese rudemente le perle, i rubini, gli anelli che le aveva donato.
Ma ella, che si sapeva innocente e che non aveva mai cercato altro che di compiere i suoi doveri, glieli restituì senza rammarico, anzi, vedendo che egli era contento di riprenderli, ebbe nel darli la stessa gioia che aveva provato nel riceverli.
“Mio marito mi tormenta per mettermi alla prova,” pensava, “mi fa soffrire per tener desta la mia virtù che potrebbe assopirsi in una indolente tranquillità. Devo dunque amare la sua severità perché si è felici solo quando si è conosciuto il dolore.”
Il principe la vedeva obbedire mitemente a tutti i suoi ordini, ma non era tranquillo.
‘Ho scoperto’, pensò ‘la ragione di questa falsa virtù finora le ho tolto solo le cose che non le stavano più a cuore perché mia moglie ha risposto ogni affetto nella principessina. Se voglio metterla veramente alla prova, devo colpirla nel suo amore materno.’
Ella aveva appena allattato la sua piccolina, che adesso giocherellava con lei e rideva guardandola.
“So che l’amate molto,” le disse in quel momento il principe, “e tuttavia devo togliervela in questa età ancor tenera per darle un’educazione e difenderla da certe cattive abitudini che potrebbe prendere standovi vicino. Per fortuna conosco una dama piena di spirito che saprò coltivare in lei quelle virtù e quell’educazione che si convengono a una principessa. Preparatevi dunque a lasciarla: fra poco verranno a prenderla”.
Così detto se ne andò non avendo il coraggio di vedere togliere dalle braccia di lei l’unico frutto del loro amore.
Ella, con il volto inondato di lacrime, attese il momento della sua sventura.
Ed ecco apparire l’incaricato di quel compito triste e crudele.
“Principessa, bisogna obbedire” le disse prendendole la bambina.
Ella la guardò un’ultima volta, la baciò con tutto il suo ardore materno e la piccola con le sue manine le restituì la carezza.
Poi si abbandonò singhiozzando al suo amaro dolore.
Vicino alla città sorgeva un monastero famoso per bellezza e antichità una badessa piena di pietà;
dirigeva quel luogo con regime severo.
Laggiù segretamente e senza dire di chi fosse figlia, fu condotta la bimba nella notte silente, e molte gemme rare
misero accanto a lei per compensare la sua nuova famiglia.
Il principe, che cercava di dimenticare nella caccia il rimorso della sua crudeltà temeva di rivedere la principessa così come si teme di affrontare una tigre a cui sono stati strappati i suoi nati.
Ma, quando infine le comparve dinanzi, fu trattato da lei con quella dolcezza e perfino con quell’affetto che ella aveva mostrato nei giorni più felici.
Tanta bontà lo colmò di rimorso e di vergogna, ma, in egual tempo, più profondo divenne il suo umor tetro.
E due giorni dopo, ricorrendo a una nuova finzione per arrecarle un nuovo dolore, venne ad annunciarle che la loro fanciulla era morta.
La principessa si sentì mortalmente ferita dal nuovo colpo, ma, nonostante la sua angoscia, vedendo il volto terreo dello sposo, ella parve dimenticare se stessa e preoccuparsi solo di consolarlo nel suo dolore.
Questa insuperabile prova di affetto coniugale disarmò il principe e lo commosse nel più intimo, tanto che per poco non rivelò la verità.
Ma riprese subito il controllo di se e tacque pensando che forse era necessario mantenere il segreto.
Quel dolore riavvicinò i due sposi, i quali, nonostante la malinconia del principe, trovarono ancora una reciproca tenerezza.
Quindici anni trascorsero senza che alcuna nube apparisse tra loro, e se talora il principe sembrasse divertirsi a contrariare la sposa, lo faceva solo per impedire che il loro amore si affievolisse, così come talora il fabbro getta un poco d’acqua sulla brace che sta per spegnersi, per far nuovamente avvampare la fiamma.
Frattanto la principessina cresceva saggia e intelligente.
All’ingenua dolcezza della madre, univa la nobile fierezza del padre illustre: insomma era ricca di tutte le doti, un vero astro radioso nel firmamento.
Un signore della corte, giovane, ben fatto e bello come la luce del giorno, la vide per caso dietro le inferiate del convento e se ne innamorò follemente.
Per quell’istinto che la natura ha dato a tutte le donne belle, di scorgere le invisibili ferite fatte dai loro occhi nel momento stesso in cui vengono in cui vengono inferte, la principessina si accorse di quel amore e, dopo aver resistito un po’, lo ricambiò teneramente.
Su quel signore non c’era proprio nulla da dire: era bello, valoroso e di casata illustre; già da tempo il principe aveva messo gli occhi su di lui per farlo suo genero.
Egli fu dunque assai contento dell’affetto che univa i due giovani.
Ma, bizzarro com’era, gli venne l’idea di far conquistare la loro forza di pene e di angustie la maggior felicità della loro vita. ‘Li farò contenti,’ pensò ‘ma voglio che le più profonde inquietudini rendano invincibili il loro affetto. E, in egual tempo, voglio mettere ancora alla prova la pazienza di mia moglie, non già come ho fatto finora, per assicurare la mia folle diffidenza, che del suo amore non posso più dubitare davvero, ma per far risplendere agli occhi di tutti i sudditi la sua bontà la sua dolcezza e la sua profonda saggezza.’
Dichiarò dunque pubblicamente che, poiché non aveva un erede a cui lasciare i suoi Stati e poiché la figlia nata dal suo matrimonio era morta in fasce, doveva cercare in un’ altra sposa miglior fortuna.
Si trattava, disse, di una fanciulla di antica e illustre discendenza, educata fin ora in un convento; e dichiarò che ben presto l’avrebbe condotta all’altare.
Immaginatevi la costernazione che questa notizia provocò nei due giovani, poiché la nuova sposa avrebbe dovuto essere appunto la principessina.
Dal canto suo il principe, senza manifestare il minimo dolore, avvertì la sua fedele sposa di doversi separare da lei per evitare mali estremi, perché il popolo, sdegnato delle sue umili origini, lo costringeva a un’unione più degna.
“Bisogna” disse “che ve ne torniate alla vostra capanna di stoppie e di fascine; rimettetevi addosso le vesti contadine: ecco qua, ve le ho bell’e preparate.”
La principessa lo ascoltò con tranquilla e silenziosa costanza: nascose il suo dolore sotto un’ apparenza serena, e grosse lacrime caddero dai fulgidi occhi senza che l’affanno potesse offuscare la sua bellezza, così come quando, a primavera, splende il sole e, in egual tempo, cade un piovasco.
“Signore mio, voi siete il mio sposo e il mio padrone” rispose sospirando e stando quasi per venire meno “e, per quanto mi angosci quello che ascolto, vedrete voi stesso che nulla mi è più caro dell’obbedirvi.
Si ritirò subito nella sua camera e là, deposti i ricchi abiti, indossò senza dir nulla, quelli che portava quando guidava il suo gregge.
Così umilmente vestita, tornò dal principe e gli disse: “Non posso allontanarmi da voi senza chiedervi perdono per non esservi stata gradita. Posso sopportare tutto il peso della miseria, ma non quello del vostro corruccio: accordate dunque questa grazia al mio sincero rammarico, ed io vivrò contenta nella mia triste casetta senza che il tempo possa mutare il mio umile rispetto ne il mio fedele amore.”
Tanta sottomissione e tanta magnanimità sotto un così modesto abbigliamento, per poco non indussero il principe a revocare l’ordine di esilio, tanto che quelle vesti gli ricordavano intensamente la dolce pastorella di un tempo.
Commosso e con le lacrime agli occhi, egli fece un passo per abbracciarla, ma subito la sua fierezza riprese il sopravvento obbligandolo a rispondere duramente: “Non ricordo più nulla; comunque son contento del vostro pentimento. Non ho altro da dire: andate pure, è tempo di partire”.
La principessa obbedì e, volgendosi al padre suo che, al pari di lei aveva ripreso il suo rustico abito e, pieno di dolore, piangeva un così repentino e inatteso mutamento, gli disse: “Torniamo ai nostri boschi e lasciamo senza rimpianti il lusso dei palazzi. Le nostre capanne non hanno tanta magnificenza, ma vi si può trovare un riposo più sicuro, una pace più dolce e una maggiore innocenza.”
Appena tornata nella sua dimora solitaria, ella riprese il fuso e la conocchia e andò a filare sul bordo dello stesso ruscello su cui il principe l’aveva incontrata.
E là il suo cuore sereno e senza rancori chiese mille volte al Cielo di colmare il suo sposo di gloria e di ricchezze e di appagare benevolmente tutti i suoi desideri.
Lo sposo da lei così rimpianto volle metterla ancora una volta alla prova e le mandò a dire di venire da lui perché voleva parlarle.
“Griselda” le disse quando l’ebbe dinanzi, “voglio che la principessa che devo sposare domani sia contenta di voi e di me. Aiutatemi dunque a rendermi grato alla donna che amo. Voi sapete come voglio essere servito: non fate risparmi ne riserve e procurate che dappertutto si senta la presenza di un principe innamorato. Impegnate tutta la vostra accortezza nell’addobbare il suo appartamento in modo che appaiano egualmente l’abbondanza, la ricchezza, l’armonia e il buon gusto; insomma, pensate che si tratta di una giovane principessa che io amo teneramente. Anzi, per darvi un’idea ancora più precisa del vostro compito, voglio mostrarvi colei che dovete servire.”
Quale si mostra la nascente aurora alle porte dell’Oriente, tale apparve, e più bella ancora, la principessina quando arrivò.
Subito Griselda sentì nel cuore un dolce impulso di tenerezza materna; le tornò il ricordo del tempo trascorso e dei giorni felici, e pensò “Ahimé mia figlia, se il Cielo avesse accolto i miei voti, avrebbe quasi la stessa età e, forse, la stessa bellezza.”
E fu presa da un affetto così vivo e così profondo per la giovane principessa, che, appena ella si fu allontanata, così parlò al principe, seguendo senza saperlo il suo istinto: “Permettetemi, signore, di farvi notare che questa bella fanciulla che sta per divenire la vostra sposa, educata negli agi e nel lusso, non potrà sopportare, senza morire, gli stessi trattamenti che io ho ricevuto da voi. Il bisogno, la mia umile origine, mi avevano rafforzato alle fatiche, ed io ho potuto sopportare tanti mali senza pena e senza lamentarmi: ma lei, che non ha mai conosciuto il dolore, morrà certamente al minimo sgarbo, alla minima parola dura. Oh, signore, vi scongiuro, trattatela con dolcezza.”
“Pensate a servirmi come meglio potete “rispose severamente il principe.
“Non è conveniente che una semplice pastora mi dia lezione o voglia ricordarmi i miei doveri.”
A queste parole Griselda abbassò gli occhi e si ritirò.
Frattanto arrivarono da ogni parte i signori invitati alle nozze.
Il principe li radunò in una magnifica sala e tenne loro questo discorso:
“Nulla al mondo, dopo la speranza, è più ingannevole dell’apparenza; e ne abbiamo qui una prova lampante. Chi non crederebbe che la mia fidanzata, la quale sta per diventare principessa, non sia piena di gioia in questo dì Eppur non è così E chi potrebbe fare a meno di credere che questo giovane guerriero avido di gloria, non sia contento di questo matrimonio, lui che, nel torneo che seguirà avrà vittoria certa su qualunque rivale? Eppur la cosa non è affatto tale. Chi anche non crederebbe che Griselda, nella giusta collera, non pianga e si disperi? E tuttavia non piange, è mite e sottomessa: insomma, sembra la pazienza stessa. E infine chi non crederebbe, nel vedere la bellezza della fanciulla da me amata, che nulla possa eguagliare la fortunata corsa del mio destino? Ma, se queste nozze mi sentissi legato, non potrei immaginare dolore più profondo ed io, fra tutti i principi del mondo, sarei il più disgraziato. Vi sembra questo un enigma difficile a spiegarsi? Due sole parole ve lo faranno capire, e queste due parole dissiperanno in egual tempo tutte le angustie di cui vi ho parlato. Sappiate dunque che la bella fanciulla, di cui mi credete invaghito, è mia figlia e che io la dono in moglie a questo giovane signore che l’ama e ne è amato. Sappiate ancora che, intimamente commosso dalla pazienza e dello zelo della saggia e fedele sposa da me indegnamente scacciata, la riprendo con me per ripartire con il più dolce e sincero affetto il barbaro trattamento che la mia gelosia le ha inferto. E metterò maggior cura nel prevenire tutti i suoi desideri di quanta ne abbia avuta, al tempo della mia follia, nel caricarla di affanni.”
Come quando una densa nuvola oscura la luce del giorno e il cielo buio minaccia da ogni parte uragani, se i venti lacerano questo velo, un brillante raggio si riversa sulle campagne e tutto sorride e torna bello, così in tutti quei volti pieni di tristezza sbocciò improvvisamente la più viva allegria.
La principessa, felice di essere figlia del principe, si gettò alle sue ginocchia; suo padre la rialzò, la baciò e la condusse alla madre che, per troppa gioia, era quasi fuor di sentimento e, appena poté serrarla nelle braccia, scoppiò in singhiozzi.
“Bene” disse il principe, “avrete tempo per soddisfare la vostra tenerezza; adesso riprendete gli abiti che vi si convengono alla vostra condizione e celebriamo le nozze.”
Sono condotti al tempio i nostri innamorati e, in quella santa sede, dinanzi a tutti i sudditi adunati so scambiarono la fede.
Tutto fu gioia e allegria: tornei imponenti, danze, giuochi, festini, insomma, il più bel di che si rammenti
ancora in quei confini.
Tutti guardan Griselda e fanno lodi della sua gran pazienza provata in mille modi, del suo cuor generoso: ed arrivano a tanta compiacenza per quel principe strambo e capriccioso, che lodano perfin i suoi maltrattamenti, ai quali esser dobbiam riconoscenti se un animo si bello di virtù femminili si rivelò modello.
- Fiaberella