Giovannino e i tre cani
In un paese di montagna viveva una povera famiglia, la cui unica fonte di sostentamento era riposta in tre pecorelle, Albina, Nerina e Ricciutella, che Giovannino, un timido ragazzo di dodici anni, conduceva ogni giorno al pascolo.
Il giro del pascolo era breve.
Le tre pecore brucavano timi e mente per i prati che circondavano in alto il paese: qui l’erba cresceva rada in mezzo a macigni e lastre di pietra fin sulla cresta, ch’era sormontata da tre croci di legno e da dove si apriva alla vista tutta la vallata. In basso, tra una fila di pioppi, scorreva il torrente.
Profumo e pace regnavano sugli alti pascoli.
Una mattina Giovannino stava provando il nuovo zufolo, che s’era costruito da sé, quando gli apparve un vecchio mendicante in compagnia d’un cane.
Era un mago.
“Che fai qui, verme della terra?” gli chiese il mago, con tono di disprezzo.
Il ragazzo, tra la meraviglia e la paura, rispose con voce tremante: “Pascolo le mie pecore.”
E quello, senza complimenti: “Dammi una pecora; al suo posto ti lascio questo cane.”
“Non posso dartela, abbiamo solo queste tre e non abbiamo altro per campare…”
“Arrivederci!” gli gridò il mago, portandosi via Albina e lasciandogli il cane.
Quando, la sera, la madre vide tornare Giovannino con due pecore e un cane, andò su tutte le furie, afferrò un ramo d’avellano e glielo scaricò sulla schiena fino al punto da fargli desiderare di morire.
All’alba del giorno seguente Giovannino non risalì le coste in cima al paese, ma portò le due pecore lungo la valle, dove potevano pascersi dell’erba fresca dei sentieri, sempre nella speranza di non incontrare di nuovo quella faccia di fuoco.
Il cane lo seguiva scodinzolando.
Invece il mago tornò e gli fece la stessa richiesta del giorno avanti: “Oggi mi darai un’altra pecora e in cambio ti darò quest’altro cane.”
E si portò via Nerina.
Il povero Giovannino, rimasto con una pecora sola e con due cani, che non solo non si potevano mungere ma pretendevano pure la zuppa, ebbe paura di far ritorno alla stalla; come potevano la madre, il padre malato di reumatismi, i fratelli vivere con la sola Ricciutella?
Ora non avevano quasi più né latte né caciotta, né avrebbero potuto più avere agnelli e lana, che erano la loro grande risorsa.
E poi, quelle frustate, chi gliele avrebbe risparmiate?
Avvicinandosi alla casa, prese un viottolo nascosto perché la madre non si accorgesse di nulla, ma quella era già in attesa sull’uscio dell’ovile e quando vide che il figlio rientrava con una sola pecora e con due cani che, facendosi festa, si saltavano addosso, diede di piglio alla solita frasca e gliela menò sulla schiena con rabbia.
Giovannino più che mai desiderò di morire, piuttosto che ricevere rimproveri ingiusti e violenze.
Il terzo giorno cambiò ancora direzione, accompagnando Ricciutella in mezzo a un boschetto di quercioli. Forse, nascosto là dentro, nessuno si sarebbe accorto di lui.
Ma il mago fu puntuale.
“Ragazzo, so che hai sofferto per causa mia e me ne dispiace. Ma come io ho bisogno delle tue pecore, così tu avrai bisogno di questi cani.”
Così dicendo, si portò via Ricciutella e lasciò il terzo cane.
Cosicché Giovannino tornò a casa con tre cani, si riprese le solite legnate e cominciò a vivere una vita di ozio e di solitudine, senza speranze né di cibo né di compassione, perché nessuno più lo guardava in faccia.
Erano rimasti senza sostentamento e tiravano avanti la giornata facendo qualche servizio, cogliendo e vendendo erbe e funghi e accattando un po’ di pane e un po’ di minestra presso i casolari di campagna.
Un giorno, stanco delle continue rampogne della madre e del silenzio degli altri, si ritirò a piangere nella stalletta, dove ormai avevano preso alloggio i cani.
Le tre bestie, appena videro il loro padrone con le lacrime agli occhi, dimenarono le code in segno di affetto e di conforto.
A quelle manifestazioni di gioia il ragazzo si ricordò delle misteriose parole del mago. Forse non era uno scherzo o una burla.
Forse il mago aveva voluto addirittura aiutarlo.
E poi, come facevano i tre cani a ingrassare a quel modo, se nessuno dava loro da mangiare?
Giusto per provare, chiamò il primo cane e gli comandò di correre in città, di rifornirsi di cibo e tornare al più presto, senza farsi vedere da nessuno.
Obbediente, l’animale partì come una freccia e dopo appena un’ora eccolo di ritorno che reggeva con la bocca una corba colma di ogni ben di Dio: forme di cacio, salsicce, salami, pasta, farina, olio, vino, sale e una bella pagnotta di pane.
Accidenti! Fuori di sé dalla gioia, Giovannino portò di corsa la corba alla madre, che la guardò prima con sospetto poi con avidità.
“Dove hai rubato tutta questa roba?”
“Non l’ho rubata!” protestò il figlio.
“E allora da dove viene?”
“Non lo so” rispose il ragazzo, e non volle più parlare.
Tutti mangiarono in silenzio e si saziarono, per la prima volta dopo tanto tempo.
Nessuno ringraziò Giovannino, ma gli fecero capire che quella cuccagna sarebbe dovuta continuare per l’avvenire, tutti i giorni.
Così in breve tempo divennero ricchi.
Tuttavia la madre non ne era soddisfatta, per quel timore che tutta quella roba fosse di dubbia provenienza e potesse procurare loro dei guai.
Poteva essere, diceva, roba rubata.
Giovannino passava le giornate andando a zonzo, seguito dai tre cani; tornava sul colle delle tre croci, nella valle, nel boschetto dei quercioli.
Era sempre triste ed era deciso di andarsene in qualche paese lontano e così cambiar vita.
Passarono i mesi, divenne più grandicello e finalmente un giorno partì con gli animali, senza salutare nessuno.
Camminava da parecchi giorni quando arrivò a una città in lutto.
Tutti i cittadini che incontrava erano vestiti di nero e camminavano a testa bassa.
Non c’era nessuno che accennasse l’ombra di un sorriso, che rispondesse a un saluto, che facesse un gesto di allegria.
Ebbe l’impressione di essere capitato in una città maledetta.
Stanco del viaggio e consigliato dall’appetito, entrò in un’osteria, sempre seguito dai suoi cani.
Gli venne incontro una donna vestita di nero, che gli chiese che cosa desiderasse.
Il giovane, curioso di sapere quale fosse la causa di tanta tristezza, le chiese: “Perché tanto lutto in questa città?”
“Perché tanto lutto? Peggio di così non si potrebbe vivere. Questa è una città di morti; e chi non è morto lo sarà!” concluse con un sospiro, e continuò dicendo che in un bosco vicino, sopra un colle, viveva un grosso serpente con cinque teste, che chiedeva, per sfamarsi, una persona al giorno.
Quel giorno toccava alla figlia del re, ecco perché la città era in lutto.
Giovannino pregò la donna di preparare la cena per quattro persone e una camera con quattro letti.
Si può immaginare lo stupore della padrona, del cuoco e del cameriere quando videro il forestiero mangiare e andare a letto insieme alle tre bestie, e parlare con loro come se fossero delle persone normali.
“Domani, svegliami un’ora prima di giorno” chiese cortesemente alla donna. Giovannino aveva deciso di salire al bosco prima del sorgere del sole per ammazzare il serpente.
C’era solo un vago chiarore nel cielo quando, guidato dai cani, cominciò a salire per un sentiero tortuoso.
Arrivato su una radura, alla sommità del colle, scorse la principessa in ginocchio che pregava e singhiozzava, in attesa che il sole sorgesse e che il serpente dalle cinque teste venisse fuori per divorarla.
Quei singhiozzi e quella legge fatale lo turbarono.
Quando si fece più avanti, ella lo guardò supplichevole: “Vattene, per amor del cielo! Se il serpente ti vede, divora anche te!” lo avvertì con voce dolce e tremante.
Ma Giovannino restò.
Il mugolio dei cani s’era fatto minaccioso.
Al sorgere del sole il serpente uscì fuori sibilando dalle cinque teste e squittendo brutalmente: “Uh, cinque bocconcini, questa mattina! Uh, cinque bocconcini, questa mattina!”
Subito Giovannino gridò ai cani: “Sbranate quella bestiaccia! E portatemi tutte le teste!”
I cani si misero all’opera: saltarono sul mostro azzannando e abbaiando con furia; ma appena avevano reciso col morso le teste ecco che quelle rispuntavano come d’incanto.
Il prodigio si rinnovò cinque volte su quei colli mozzati che si dimenavano orribilmente.
Recise le ultime cinque teste, il mostro si afflosciò e giacque immobile. I cani portarono al padrone le teste senza più vita e la principessa fu salva.
La bella fanciulla, ancora pallida per il terrore, rivelò allo sconosciuto salvatore che suo padre, il re, l’aveva promessa in moglie a chi l’avrebbe liberata dal tributo del drago.
Ella stessa, riconoscente e colpita da tanto coraggio, gli si offerse come sposa.
Le aveva risparmiato una crudele sorte!
Giovannino accolse con gioia l’offerta, ma la pregò di attendere: una voce interiore gli suggeriva di rimandare le nozze; sapeva che chi ascolta le voci interiori non si può sbagliare.
Egli dunque sarebbe tornato tra un anno e tre giorni, sarebbe andato a cercarla al palazzo reale e il loro sogno sarebbe diventato una realtà.
Allora la principessa si tolse il velo di seta dal capo e, lacerandolo, ne fece due parti: in una avvolse le cinque teste e la tenne per sé, nell’altra avvolse le cinque lingue e la consegnò a Giovannino, quasi come segno di riconoscimento e come pegno d’amore.
Quindi si congedarono, con la promessa di rivedersi tra un anno e tre giorni.
Lei, nel frattempo, e nell’attesa di lui, si sarebbe preparato il corredo delle nozze.
La principessa, dunque, s’inoltrò nel bosco per tornare alla reggia e riabbracciare il padre, il giovane eroe proseguì la sua strada in cerca di nuove imprese.
Trovandosi nel folto del bosco la principessa s’incontrò a passare accanto alle capanne di una squadra di boscaioli e carbonai che stavano lavorando lungo il sentiero.
Tagliavano giganteschi faggi a colpi d’accetta, che poi crollavano con un tuono che faceva tremare la foresta, subito dopo li riducevano a pezzi con accette e roncole, infine li componevano con arte in modo da formare una carbonaia dietro l’altra, simili a cupole che presto avrebbero nascosto il fuoco.
Quando la videro e la riconobbero le si strinsero attorno minacciosi, accusandola di aver voluto schivare la morte a danno della vita loro e delle loro famiglie.
Ella li rassicurò.
E per convincerli meglio che ormai ogni pericolo era passato, non solo raccontò loro ciò che aveva fatto un giovane sconosciuto pieno di ardire, insieme ai suoi tre formidabili cani, ma volle mostrare le cinque teste avvolte nella metà del fazzoletto di seta.
Quelli si guardarono in faccia.
Il caporale della squadra si fece avanti e ordinò con burbanza: “Dammi quell’involto! E voi, afferratela e legatela!” Così fu fatto.
Quindi la costrinse a gettarsi a terra e ad appoggiare il collo su un tronco di faggio; egli, con la scure alzata e con tono di minaccia, urlò: “Giura di raccontare al re che siamo stati noi ad uccidere il serpente e a salvarti la vita. Perché tu sarai mia sposa!”
La donna, più atterrita dalla ferocia degli uomini che dalla furia del drago, giurò. E riebbe l’involto.
Giovannino, uscito dal bosco, dopo alcune giornate di cammino, fece tappa in un nuovo paese. Seppe che qui c’era una casa senza porte e senza finestre.
Spinto dalla curiosità e dalla voglia di penetrare quel mistero, vi si recò e ordinò ai cani di sfondare parte del muro per procurarsi un passaggio.
Entrarono.
In una stanza semi buia trovarono una tavola apparecchiata: bastava mettersi a sedere e mangiare.
Giovannino stava per tirare indietro una sedia, quando notò che i tre cani, uno dietro l’altro, scomparivano attraverso una botola.
Sopra la botola si alzava un cavalletto di ferro da cui pendeva una carrucola e dalla gola della ruota pendeva una fune che andava a perdersi dentro il trabocchetto.
Lasciò la tavola e si fece calare in un ambiente sotterraneo, scarsamente illuminato.
Quel che vide gli fece gelare il sangue: lungo le pareti, sul pavimento, sparsa ovunque, c’era una folla immobile, come fermata da un sortilegio: vecchi, bambini, uomini e un gran numero di donne graziose stavano chi sedute, chi in piedi, chi appoggiato alle pareti, nelle pose più disparate.
I cani leccavano la gente e la gente tornava in vita, come se si risvegliasse da un profondo torpore; lo stesso accadeva al tocco delle mani di Giovannino.
Tutti, dopo un lungo sbadiglio, risalirono servendosi della carrucola e della fune.
Giovannino si preoccupò di far tirare su, oltre la botola, i suoi cani e si accingeva a seguirli quando, giunto oltre la metà della risalita, la fune si ruppe ed egli crollò sul pavimento.
Che cosa era accaduto?
Le giovani e belle creature s’erano tutte innamorate di lui e tutte volevano sposarlo: una di esse, più gelosa delle altre, aveva tagliato la fune.
Ci volle molto tempo e molta pazienza per riannodare i due tronconi.
Qualcuno racconta, con evidente sfoggio di fantasia, che fu addirittura un’aquila, che si trovava a passare in quello spazio di cielo, a tirarlo su, comandata chissà da qual negromante, poiché stava per scadere il tempo dell’appuntamento con la principessa.
Era trascorso infatti un anno da quando egli aveva liberato la sua sposa dal serpente e perciò decise di fare ritorno alla città che aveva trovato in lutto.
Con l’aiuto dei cani fatati in un baleno si ritrovò davanti alla medesima osteria in cui aveva conosciuto la storia del serpente dalle cinque teste.
Fu servito dalla medesima donna, questa volta tutta trilli e risolini, la quale lo informò che la città, in quel giorno, era in festa per le nozze della principessa reale.
Giovannino rimase di stucco.
“La principessa reale?”
“Sì, quella che un anno fa venne salvata dal caporale dei boscaioli..”
“Salvata da chi?”
“Dal boscaiolo che uccise il serpente dalle cinque teste!”
A quell’ora, nella reggia, mentre lui si intratteneva in una trattoria, aveva inizio il solenne banchetto nuziale, che sarebbe durato tre giorni.
I convitati erano migliaia; lampadari, porcellane, argenterie, ori, cristalli sprizzavano luci e bagliori; il sorriso brillava sulla bocca di tutti.
Giovannino mandò alla reggia uno dei cani, con il comando di portare scompiglio sulle mense e di dare un bacio alla reginella, un morso ai legnaioli, per poi darsi alla fuga tra la confusione generale, facendo perdere le sue tracce.
Il secondo giorno inviò il secondo cane, con il medesimo compito.
Il terzo giorno spedì il terzo cane, con l’ordine di rovesciare le tavole, baciare la reginella, azzannare i boscaioli e quindi allontanarsi assai lentamente dalla grande sala, quasi per invitare qualcuno a seguirlo.
Le guardie del re lo seguirono, infatti, e arrivarono fino a Giovannino, che le stava aspettando.
Le guardie avevano ricevuto l’ordine di arrestarlo, ma il giovane fece capire che aveva grandi cose da rivelare, nell’interesse del re e del suo regno.
Il re, ascoltato il messaggio, si mostrò assai preoccupato e mandò la sua carrozza dorata a prendere il forestiero.
Vennero imbandite nuovamente le mense, i convitati tornarono ad assidersi al posto loro assegnato, ma ci fu una variazione: tutti avrebbero dovuto raccontare un fatto, un episodio, un sogno, una fiaba, qualunque cosa avesse avuto un significato particolare per la propria vita.
Venne il turno di Giovannino, al quale il re aveva fatto indossare vesti di seta.
I cani gli stavano sdraiati ai piedi.
Dopo aver raccontato succintamente la storia della propria travagliata esistenza, domandò se, tra i presenti, vi fossero dei macellai.
La richiesta destò stupore e provocò mormorio.
Si alzarono cinque macellai che, al suo invito, gli si fecero attorno. “Voi cinque dovete farmi la cortesia di rispondere a questa domanda: esiste una testa senza lingua?”
“È impossibile!” risposero.
Rivolto alla principessa, le chiese: “Altezza, dove sono le cinque teste?”
La principessa si sentì palpitare il cuore, ma riuscì a nascondere i suoi sentimenti.
Si tolse dal seno un involto e glielo fece consegnare da un servitore. “Ora guardate tutti: queste sono le cinque teste del serpente. Voi, macellai, guardate se hanno le lingue.”
I macellai le osservarono attentamente e uno di essi dichiarò: “Non v’è traccia di lingue.”
“Ebbene, c’è tra i commensali qualcuno che possa mostrare le lingue di queste teste?”
Tutti rimasero immobili.
Allora il giovane si tolse di tasca le lingue avvolte nel fazzoletto di seta della figlia del re e le mostrò a tutti.
Il re riconobbe quel velo e non nascose la sua meraviglia.
La principessa colse l’occasione per rivelare al padre come erano andate veramente le cose.
Parlò del coraggio del giovane forestiero, dell’inganno dei legnaioli, della minaccia della scure, del falso giuramento.
Lo sdegno invase gli animi.
I boscaioli tentarono una via di salvezza, ma furono fermati e arrestati dalle guardie.
Il giorno dopo un tribunale del popolo li giudicò e li condannò a morte per mezzo del fuoco.
E, mentre essi ardevano sui roghi, si celebravano le nozze tra Giovannino e la principessa.
I tre cani gli fecero buona guardia per tutta la vita.
- Fiaberella