La fiaba del cavallo incantato-Parte I
Sherazad, continuando a raccontare al sultano delle Indie le sue storie così piacevoli e che lo divertivano tanto, gli narrò quella del cavallo incantato. “Sire,” disse, “come Vostra Maestà non ignora, il Nevrux, vale a dire il nuovo giorno, che è il primo dell’anno e della primavera, così detto per eccellenza, è una festa tanto solenne e antica in tutta la Persia, fin dai primi tempi dell’idolatria, che la religione del nostro profeta, che noi consideriamo come quella vera, nonostante la sua purezza non è riuscita fino ai nostri tempi ad abolirla, ancorché si possa dire che è una festa completamente pagana e le cerimonie che vi si osservano sono superstiziose. Senza parlare delle grandi città, non c’è cittadina, borgo, villaggio o casale dove non venga celebrata con festeggiamenti straordinari. Ma i festeggiamenti che vengono dati a corte li superano tutti di gran lunga per la varietà degli spettacoli sorprendenti e nuovi; e gli stranieri degli Stati vicini e anche quelli dei più lontani vi sono attratti dalle ricompense e dalla liberalità dei re nei confronti di quelli che si distinguono per le loro invenzioni e per il loro ingegno; tanto che nelle altre parti del mondo, non si vede niente che si avvicini a questa magnificenza.
Durante una di queste feste, dopo che i più abili e più ingegnosi del paese, insieme con gli stranieri che erano andati a Shiraz, dove allora risiedeva la corte, ebbero offerto al re e a tutta la corte il divertimento dei loro spettacoli, dopo che il re ebbe loro dato i suoi doni, a ognuno secondo il suo merito e secondo quanto aveva inventato di più straordinario, di più meraviglioso e di più soddisfacente, distribuendoli con tanta imparzialità che non ce n’era uno che non si considerasse degnatamente ricompensato; mentre il sovrano si accingeva a ritirarsi e a sciogliere la numerosa assemblea, un Indiano si presentò ai piedi del suo trono spingendo un cavallo sellato, imbrigliato e riccamente bardato, imitato con tanta arte che, vedendolo, lo si sarebbe in un primo momento scambiato per un vero cavallo. L’indiano si prosternò davanti al trono; e quando si fu rialzato, mostrando il cavallo al re, disse: “Sire, anche se io mi presento per ultimo davanti a Vostra Maestà per entrare in lizza posso però assicurarvi che, in questo giorno di festa, non avete visto niente di tanto meraviglioso né di tanto sorprendente come il cavallo al quale vi supplico di rivolgere gli occhi.” “Non vedo in questo cavallo,” gli disse il re, “nient’altro tranne l’arte e l’ingegnosità dell’artigiano nel dargli il più possibile un aspetto naturale. Ma un altro artigiano potrebbe farne uno simile, che lo superi perfino in perfezione.” “Sire,” riprese l’indiano, “non voglio che Vostra Maestà consideri il mio cavallo una meraviglia per la sua struttura o per il suo aspetto esteriore, ma per l’uso che so farne e che ogni uomo, come me, può farne, grazie al segreto che io posso insegnargli. Quando lo monto, in qualsiasi lontano punto della terra io desideri essere trasportato attraverso l’aria, posso farlo in brevissimo tempo. In poche parole, Sire ecco in che cosa consiste la meraviglia del mio cavallo: meraviglia di cui nessuno ha mai sentito parlare e che mi offro di dimostrare a Vostra Maestà se mi sarà ordinato.” Il re di Persia, che si interessava di tutto quello che aveva qualcosa di meraviglioso e che, dopo tante cose di questo genere che aveva visto, cercato di vedere e desiderato di vedere, non aveva visto niente che vi si avvicinasse, né sentito dire che avessero mai visto niente di simile, disse all’indiano che solo la dimostrazione che lui gli aveva proposto poteva convincerlo della superiorità del suo cavallo, e che era pronto a riscontrarne la verità. L’indiano mise subito il piede nella staffa, si lanciò sul cavallo con grande destrezza e, dopo aver messo il piede nell’altra staffa ed essersi ben assicurato alla sella, chiese al re di Persia dove doveva andare. Circa a tre leghe da Shiraz, c’era un’alta montagna che si vedeva tutta dalla grande piazza dove il re di Persia si trovava in quel momento davanti al suo palazzo, e che era piena di tutto il popolo che vi si era radunato. “Vedi quella montagna?” gli disse il re mostrandola all’indiano, “desidero che tu vada là: la distanza non è molta; ma è sufficiente a giudicare il tempo che impiegherai per andare e tornare. E, poiché non è possibile seguirti con lo sguardo fin là, devi portarmi, per prova sicura di esserci arrivato, un ramo di una palma che si trova ai piedi della montagna.”
Appena il re di Persia ebbe dichiarato la sua volontà con queste parole, l’indiano non fece altro che girare un cavicchio che sporgeva un pò alla base del collo del cavallo, vicino al pomo della sella. Immediatamente il cavallo s’innalzò da terra e sollevò in aria il cavaliere come un fulmine, così in alto che in pochi momenti anche quelli che avevano la vista più acuta non lo videro più; e questo avvenne con grande ammirazione del re e dei sui cortigiani e tra alte grida di stupore da parte di tutti gli spettatori riuniti.
Non era passato neppure un quarto d’ora da quando l’indiano era partito, quando lo videro in aria che tornava con il ramo di palma in mano. Lo si vede arrivare sopra la piazza, dove fece parecchi caracolli, tra le acclamazioni di gioia del popolo che lo applaudiva, finché venne a posarsi davanti al trono del re, nello stesso posto da dove era partito, senza nessuna scossa del cavallo che potesse dargli fastidio. Scese a terra; e, avvicinandosi al trono, si prosternò e posò il ramo di palma ai piedi del re. Il re di Persia, che aveva assistito, con ammirazione uguale allo stupore, all’inaudito spettacolo offertogli dall’indiano, ebbe nel medesimo istante un grande desiderio di possedere il cavallo; e, convinto che non avrebbe incontrato difficoltà a trattarne l’acquisto con l’indiano, deciso ad accordargli qualsiasi somma egli chiedesse, lo considerava già come il pezzo più prezioso del suo tesoro che avrebbe così arricchito.. “A giudicare il tuo cavallo dall’aspetto esteriore,” disse all’indiano, “non capivo perché dovesse essere considerato tanto, quanto tu mi hai appena dimostrato che vale. Ti ringrazio di avermi fatto ricredere; e, per dimostrarti quanto lo valuto, se è in vendita, sono pronto a comprarlo.” “Sire,” rispose l’indiano, “ero certo che voi, Maestà, che, tra tutti i re che regnano oggi sulla terra, passate per colui che sa giudicare meglio tutte le cose e stimarle secondo il loro giusto valore, avreste reso al mio cavallo la giustizia che gli rendete, appena vi avrei fatto conoscere il motivo per il quale esso è degno della vostra attenzione. Avevo anche previsto che non vi sareste accontentato di ammirarlo e di lodarlo, ma che avreste anche immediatamente desiderato di entrarne in possesso, come ora mi avete manifestato. Quanto a me, Sire, anche se io ne conosco il valore per quanto lo si possa conoscere, e anche se il suo possesso mi offre il modo di rendere il mio nome immortale nel mondo, tuttavia non mi preme tanto da non volermene privare per soddisfare il nobile desiderio di Vostra Maestà. Ma, facendovi questa dichiarazione, debbo farvene un’altra che riguarda la condizione senza la quale non posso decidermi a cederlo in altre mani, condizione che forse non prenderete bene. Permettetemi dunque, Maestà, di dirvi, aggiunse l’indiano,” che io non ho comprato questo cavallo: l’ho ottenuto da colui che l’ha inventato e costruito solo dandogli in moglie la mia unica figlia, che egli mi aveva chiesto; e, nello stesso tempo, egli pretese da me che io non lo vendessi e che, se avessi voluto dargli un altro padrone, avrei dovuto cederlo in cambio di qualsiasi cosa giudicassi opportuna.” L’indiano voleva continuare; ma, alla parola cambio, il re di Persia lo interruppe: “Sono pronto,” replicò, “ad accordarti lo scambio che vorrai chiedermi. Tu sai che il mio regno è grande, che è pieno di grandi città, potenti, ricche e popolose. Lascio a tua scelta quella che vorrai scegliere, in piena potenza e sovranità per il resto dei tuoi giorni.” Questo scambio sembrò davvero regale a tutta la corte di Persia; ma era molto inferiore a quanto l’indiano si era proposto. Egli aveva portato le sue mire a qualcosa di molto più alto. Rispose al re: “Sire, sono infinitamente grato a Vostra Maestà dell’offerta fattami, e non posso ringraziarvi abbastanza della vostra generosità. Tuttavia vi supplico di non offendervi se mi prendo l’ardire di dichiararvi che posso farvi entrare in possesso del mio cavallo soltanto ricevendo in sposa dalla vostra mano la principessa vostra figlia. Sono deciso a privarmene soltanto a questo prezzo.” I cortigiani che circondavano il re di Persia non poterono impedirsi di scoppiare sonoramente a ridere per la stravagante richiesta dell’indiano. Ma il principe Firuz Shah, figlio maggiore del re e presunto erede al trono, non riuscì ad ascoltarla senza indignazione. Il re la pensò in modo ben diverso e credette di poter sacrificare la principessa di Persia all’indiano per soddisfare la propria curiosità. Tuttavia prima di risolversi a prendere questo partito, rimase un pò titubante.
Il principe Firuz Shah, vedendo che il re suo padre esitava sulla risposta da dare all’indiano, temette che accettasse la richiesta: cosa che lui avrebbe considerato come ugualmente ingiuriosa per la dignità regale, per la principessa sua sorella e per sé stesso. Cominciò dunque a parlare e, prevenendolo, disse: “Sire, Vostra Maestà mi perdoni se oso chiedervi se è possibile che esitiate un solo istante sul rifiuto che dovete opporre all’insolente domanda di un uomo da niente e di un infame ciarlatano, e che gli diate modo di lusingarsi per un attimo di imparentarsi con uno dei più potenti sovrani della terra. Vi supplico di considerare non solo quello che dovete a voi stesso, ma anche quello che dovete al vostro sangue e alla grande nobiltà dei vostri antenati.” “Figlio mio,” rispose il re di Persia, “prendo bene la vostra rimostranza e vi sono molto grato dello zelo che dimostrate per conservare il lustro dei vostri natali nello stesso stato in cui lo avete ricevuto; ma voi non considerate abbastanza né l’eccellenza del cavallo, né che l’indiano, il quale mi propone questa via per farmene entrare in possesso, può, se lo respingo, andare a fare la stessa proposta altrove, dove passeranno sopra al punto d’onore, e io sarei ridotto alla disperazione se un altro sovrano potesse vantarsi di avermi superato in generosità e di avermi privato della gloria di possedere questo cavallo, che considero la cosa più singolare e più degna di ammirazione che ci sia al mondo. Non voglio dire, tuttavia, che acconsento a quanto mi chiede. Forse egli stesso non si rende perfettamente conto dell’enormità della sua pretesa; e, a parte la principessa mia figlia, farò qualsiasi altro patto egli vorrà. Ma, prima di giungere alla conclusione dell’accordo, mi farebbe molto piacere se voi esaminaste il cavallo e lo provaste personalmente per dirmene la vostra opinione. Sono sicuro che ve lo permetterà.” Poiché è naturale lusingarsi su ciò che si desidera, l’indiano, che credette di intravedere da questo discorso che il re di Persia non era del tutto contrario ad accoglierlo nella sua famiglia, accettando il cavallo a questo prezzo, e che il principe, invece di essergli ostile come aveva dimostrato, avrebbe potuto diventargli favorevole, ben lontano dall’opporsi al desiderio del re, ne fu contento; e, per dimostrare che vi acconsentiva con piacere, precedette il principe, avvicinandosi al cavallo, pronto ad aiutarlo a salire in sella e ad avvertirlo di quello che doveva fare per ben manovrarlo.
Il principe Firuz Shah, con mirabile destrezza, salì sul cavallo senza l’aiuto dell’indiano; e, appena ebbe messo i piedi nelle staffe senza aspettare nessun consiglio dell’indiano, girò il cavicchio come aveva visto fare a lui qualche momento prima quando lo aveva montato a sua volta. Appena ebbe girato il cavicchio, il cavallo lo sollevò con la velocità di una freccia scoccata dall’arciere più forte e più abile; e così, in pochi istanti, il re, tutta la corte e tutta la numerosa assemblea lo persero di vista. Il cavallo e il principe Firuz Shah non si vedevano più in aria e il re di Persia si sforzava inutilmente di scorgerlo, quando l’indiano, inquieto per ciò che era successo, si prosternò davanti al trono e costrinse il re a rivolgere lo sguardo su di lui e a prestare attenzione al discorso che egli gli fece in questi termini: “Sire,” disse, “Vostra Maestà stessa ha visto che il principe mi ha impedito, con la sua precipitazione, di dargli le istruzioni necessarie per manovrare il mio cavallo. Basandosi su quanto mi aveva visto fare, ha voluto dimostrare di non aver bisogno del mio suggerimento per partire a sollevarsi in aria; ma egli ignora il suggerimento che dovevo dargli per far tornare indietro il cavallo e per farlo scendere nel posto da dove era partito. Perciò, Sire, chiedo a Vostra Maestà la grazia di non considerarmi responsabile di quello che potrà capitargli. Siete troppo equanime per imputarmi la disgrazia che può succedere.” Il discorso dell’indiano rattristò molto il re di Persia, che capì che il pericolo in cui si trovava il principe suo figlio era inevitabile se, come diceva l’Indiano, per far tornare il cavallo esisteva veramente un segreto diverso da quello che lo faceva partire e sollevarsi in aria. Gli chiese perché non lo avesse richiamato nel momento in cui lo aveva visto partire. “Sire,” rispose l’indiano, “Vostra Maestà stessa è stata testimone della rapidità con la quale il cavallo e il principe sono stati portati via: lo stupore, del quale ero e del quale sono ancora preda, mi ha in un primo momento tolto la parola e, quando sono stato in condizione di servirmene, egli era già così lontano che non avrebbe udito la mia voce e, anche se l’avesse sentita, non avrebbe potuto manovrare il cavallo per farlo tornare indietro, poiché non ne conosceva il segreto e non ha avuto la pazienza di apprenderlo da me. Ma, Sire,” aggiunse, “c’è tuttavia motivo di sperare che il principe, nell’imbarazzo in cui si troverà, si accorgerà di un altro cavicchio, girando il quale il cavallo smetterà subito di innalzarsi e scenderà verso terra, dove potrà posarsi nel posto che riterrà opportuno guidandolo con la briglia.” Quantunque il ragionamento dell’indiano fosse del tutto attendibile, il re di Persia, preoccupato per l’evidente pericolo in cui si trovava il principe suo figlio riprese: “Supponiamo, cosa comunque molto incerta, che il principe mio figlio si accorga dell’altro cavicchio e che ne faccia l’uso che tu dici; il cavallo, invece di scendere fino a terra, non può cadere sulle rocce o precipitare insieme con lui negli abissi del mare?” “Sire,” replicò l’indiano, “posso liberare Vostra Maestà da questo timore, assicurandovi che il cavallo passa i mari senza mai cadervi e che porta sempre il cavaliere dove egli ha l’intenzione di andare, e Vostra Maestà può essere sicura che se il principe si accorge dell’altro cavicchio di cui vi ho parlato, il cavallo lo porterà solo dove egli vorrà andare, e non è credibile che egli vada altrove se non in un posto in cui potrà trovare aiuto e farsi riconoscere.” A queste parole dell’indiano: “Comunque sia,” replicò il re di Persia, “poiché non posso fidarmi della tua assicurazione, la tua testa risponderà della vita di mio figlio se, entro tre mesi, non lo vedrò tornare sano e salvo o se non saprò con certezza che egli è vivo.” Ordinò di prenderlo e di rinchiuderlo in un’angusta prigione; poi si ritirò nel suo palazzo, grandemente addolorato che la festa del Nevrux, tanto solenne in Persia, si fosse conclusa in maniera così triste per lui e per la sua corte.
- Fiaberella