La fiaba di Aladino e della lampada magica- Parte IV

Quando sua madre fu uscita, seguendo l’ultimo schiavo negro, chiuse la porta e rimase tranquillamente in camera sua, con la speranza che il sultano, dopo questo dono che era proprio come aveva richiesto, avrebbe finalmente acconsentito ad accettarlo come genero. Il primo schiavo bianco uscito dalla casa di Aladino aveva fatto fermare tutti i passanti che lo avevano visto, e prima che gli ottanta schiavi, uno bianco alternato a un negro, fossero tutti usciti, la strada si era riempita di una grande massa di popolo che accorreva da ogni parte per vedere uno spettacolo così splendido e straordinario. Il vestito di ogni schiavo era così ricco per stoffe e pietre preziose, che i migliori intenditori non credettero di sbagliare valutando il prezzo di ogni abito a più di un milione. La grande eleganza, la forma ben studiata di ogni abito, la grazia, il bell’aspetto, la bella statura uniforme di ogni schiavo, il loro passo maestoso, a uguale distanza l’uno dall’altro insieme con lo splendore delle pietre preziose di enorme grandezza, incastonate intorno alle loro cinture di oro massiccio in bella simmetria, e le insegne di pietre preziose attaccate ai loro berretti, di un gusto tutto particolare, suscitarono in tutta questa folla di spettatori un’ammirazione così grande che non potevano stancarsi di guardarli e di seguirli con gli occhi il più lontano possibile. Ma le vie erano così stracolme di popolo che nessuno poteva muoversi dal proprio posto. Poiché, per arrivare al palazzo del sultano, bisognava attraversare parecchie strade, questo fece sì che una buona parte della città, gente di ogni ceto e condizione, fosse testimone di uno sfarzo così affascinante. Il primo degli ottanta schiavi arrivò alla porta del primo cortile del palazzo; e i portinai, che avevano fatto ala, appena si accorsero che questo meraviglioso corteo si avvicinava, lo scambiarono per un re, tanto era riccamente e magnificamente vestito; essi gli andarono incontro per baciargli l’orlo della veste; ma lo schiavo, istruito dal genio, li fermò e disse loro gravemente: “Noi siamo soltanto schiavi; il nostro padrone arriverà quando sarà il momento.” Il primo schiavo, seguito da tutti gli altri, continuò fino al secondo,che era spaziosissimo e nel quale i dignitari del sultano si sistemavano durante la seduta del Divano. Gli ufficiali, alla testa di ogni drappello, erano vestiti con grande ricchezza, ma essa fu cancellata di fronte agli ottanta schiavi portatori del dono di Aladino. Niente sembrò così bello né così ricco in tutto il seguito del sultano e tutto lo splendore dei dignitari della sua corte, che lo circondavano, non era niente in confronto a quello che in quel momento gli si presentava allo sguardo.

Poiché il sultano era stato avvertito del corteo e dell’arrivo di questi schiavi, egli aveva dato ordine di farli entrare. Perciò, appena arrivarono, trovarono libero l’ingresso del Divano, e vi entrarono in bell’ordine, una parte a destra e l’altra a sinistra. Quando tutti furono entrati ed ebbero formato un grande semicerchio davanti al trono del sultano, gli schiavi negri posarono ciascuno il proprio vassoio sul tappeto. Si prosternarono tutti assieme, battendo la fronte contro il tappeto, tutti gli schiavi bianchi fecero la stessa cosa contemporaneamente. Si rialzarono tutti assieme; e i negri, nel farlo, scoprirono abilmente i vassoi che avevano davanti, e restarono tutti in piedi, con le mani incrociate sul petto, con grande modestia. La madre di Aladino, che intanto era arrivata fino ai piedi del trono, dopo essersi prosternata disse al sultano: “Sire, mio figlio Aladino non ignora che questo dono che egli manda a Vostra Maestà è molto inferiore a quanto merita la principessa Badr-al-Budur; tuttavia egli spera, Maestà, che lo gradirete e che vi compiacerete di farlo gradire anche alla principessa, con tanta maggiore fiducia in quanto egli ha cercato di conformarsi alla condizione che voi avete voluto imporgli.” Il sultano non era in grado di prestare attenzione al complimento della madre di Aladino. Il primo sguardo lanciato sui quaranta vassoi d’oro, pieni fino all’orlo delle gemme più brillanti, più splendenti e più preziose che mai si fossero viste al mondo, e sugli ottanta schiavi che sembravano altrettanti re, sia per il loro bell’aspetto sia per la ricchezza e la stupefacente magnificenza dei loro abbigliamenti, l’aveva colpito tanto che non poteva riprendersi dalla sua ammirazione. Invece di rispondere al complimento della madre di Aladino, si rivolse al gran visir, che non riusciva lui stesso a capire da dove potesse essere arrivata una così grande profusione di ricchezze. “Ebbene! visir,” disse a voce alta, “che pensate di colui, chiunque possa essere, che mi invia un dono così ricco e così straordinario, e che né voi né io conosciamo? Lo giudicate indegno di sposare la principessa mia figlia?” Nonostante la gelosia e il dolore che il gran visir ebbe nel vedere che uno sconosciuto sarebbe diventato genero del sultano al posto di suo figlio, egli non osò tuttavia nascondere il suo pensiero. Era assai evidente che il dono di Aladino era più che sufficiente da meritare che egli fosse accolto in una così illustre parentela. Rispose dunque al sultano, e, condividendo la sua opinione, disse: “Sire, ben lontano dal pensare che colui che ha fatto a Vostra Maestà un dono tanto degno sia immeritevole dell’onore che voi volete fargli, oserei dire che meriterebbe di più, se non fossi convinto che non esiste al mondo tesoro abbastanza ricco da essere messo sulla bilancia con la principessa figlia di Vostra Maestà.” I signori della corte, che partecipavano alla seduta del consiglio, dimostrarono con i loro applausi che la loro opinione non era diversa da quella del gran visir.

Il sultano non aspettò oltre; non pensò neppure ad informarsi se Aladino avesse altre qualità necessarie a colui che poteva aspirare a diventare suo genero. La sola vista di tante immense ricchezze e la sollecitudine con la quale Aladino aveva soddisfatto la sua richiesta, senza aver mosso la minima difficoltà a condizioni tanto esorbitanti quanto quelle che gli aveva imposto, lo convinsero facilmente che non gli mancava niente di tutto quello che poteva renderlo perfetto e come lui voleva. Perciò, per congedare la madre di Aladino con la soddisfazione che lei poteva desiderare, le disse: “Brava donna, andate a dire a vostro figlio che lo aspetto per riceverlo a braccia aperte e abbracciarlo; e che quanto più sollecitamente verrà a ricevere dalla mia mano il dono che gli ho fatto della principessa mia figlia, tanto più mi farà piacere.” Appena la madre di Aladino fu andata via, con la gioia di cui una donna della sua condizione può essere capace vedendo il figlio elevato a un così alto onore contro le proprie attese, il sultano mise fine all’udienza di quel giorno; e, alzandosi dal trono, ordinò che gli eunuchi addetti al servizio della principessa venissero a prendere i vassoi d’oro per portarli nell’appartamento della loro padrona, dove andò subito per esaminarli con lei a suo agio; e quest’ordine fu eseguito immediatamente, con la sollecitudine del capo degli eunuchi. Gli ottanta schiavi bianchi e neri non furono dimenticati: li fecero entrare nell’interno del palazzo; e poco dopo il sultano, che aveva appena parlato dello loro magnificenza alla principessa, ordinò di farli venire davanti all’appartamento, affinché lei li esaminasse attraverso le persiane e riconoscesse che, lontano dall’aver esagerato nulla nel racconto che le aveva fatto, egli gliene aveva detto molto meno della realtà.

La madre di Aladino, intanto, arrivò a casa, con un’aria che lasciava già vedere la buona notizia che portava a figlio. “Figlio mio,” gli disse, “avete tutte le ragioni per essere contento: siete arrivato alla realizzazione dei vostri desideri, anche se io non ci credevo, e voi sapete che cosa ve ne avevo detto. Per non tenervi troppo a lungo in ansia, il sultano, con il plauso di tutta la sua corte, ha dichiarato che siete degno di possedere la principessa Badr-al-Budur Vi aspetta per abbracciarvi e concludere il vostro matrimonio. Tocca a voi pensare ai preparativi per questo incontro, affinché esso corrisponda all’alta opinione che egli si è fatta della vostra persona; ma, dopo quanto ho visto sulle meraviglie che sapete fare, sono convinta che niente vi farà difetto. Non devo dimenticarmi di dirvi ancora che il sultano vi aspetta con impazienza; perciò non perdete tempo e andate da lui.” Aladino, estasiato da questa notizia e tutto assorto nel pensiero della donna che lo aveva incantato, disse poche parole a sua madre e si ritirò in camera sua. Là, prese la lampada che gli aveva reso tanti servigi fino a quel momento in tutte le sue necessità e in tutto quello che aveva desiderato; e, appena l’ebbe strofinata, il genio continuò a dimostrare la sua ubbidienza, apparendo subito senza farsi aspettare. “Genio,” gli disse Aladino, “ti ho chiamato perché tu mi faccia subito fare un bagno; e, dopo che l’avrò fatto, voglio che tu tenga pronto per me l’abito più ricco e più magnifico che mai monarca abbia indossato.” Aveva appena pronunciato queste parole che il genio rendendolo invisibile come lui, lo prese e lo trasportò in un bagno, tutto di marmo finissimo e di diversi colori, tra i più belli e variati. Senza vedere chi lo servisse, fu spogliato in un vasto salone molto elegante. Dal salone lo fecero entrare nel bagno, dove il calore era moderato; e là fu massaggiato e lavato con diverse qualità di acque profumate. Dopo averlo fatto passare attraverso tutte le gradazioni di calore secondo le differenti stanze del bagno, ne uscì, ma completamente diverso da quando vi era entrato: il suo colorito divenne fresco, bianco, vermiglio, e il suo corpo molto più agile e vigoroso. Rientrò nel salone, e non trovò più il vestito che vi aveva lasciato: il genio aveva avuto cura di mettere al suo posto quello che egli aveva richiesto. Aladino fu stupito vedendo la magnificenza dell’abito che avevano sostituito al suo. Si vestì aiutato dal genio, ammirando ogni capo via via che lo indossava, tanto ognuno superava ciò che lui avrebbe potuto immaginare. Quando ebbe finito, il genio lo riportò a casa, nella stessa camera in cui l’aveva preso. Allora gli chiese se avesse altro da chiedergli. “Sì,” rispose Aladino; “ti chiedo di portarmi al più presto un cavallo che superi in bellezza e docilità il cavallo più pregiato scuderia del sultano, che abbia la gualdrappa, la sella, la briglia e tutti i finimenti di un valore superiore al milione. Ti chiedo anche di farmi venire nello stesso tempo venti schiavi, vestiti altrettanto riccamente e altrettanto elegantemente di quelli che hanno portato il dono, affinché camminino ai miei lati e al mio seguito, in gruppo, e altri venti simili, per camminare davanti a me in due file. Fai anche venire sei schiave per servire mia madre; ognuna vestita almeno con la stessa ricchezza delle schiave della principessa Badr-al-Budur, e ognuna deve portare un abito completo, magnifico e sfarzoso come se fosse per la sultana. Mi occorrono anche diecimila monete d’oro divise in dieci borse. Ecco, aggiunse,quello che dovevo ordinarti. Va’ e fai alla svelta.” Appena Aladino ebbe finito di dargli i suoi ordini, il genio scomparve e tornò poco dopo col cavallo, i quaranta schiavi, dieci dei quali portavano ognuno una borsa con mille monete d’oro, e con sei schiave, ognuna delle quali portava sulla testa un abito diverso per la madre di Aladino, avvolto in una tela d’argento; e il genio presentò tutto ad Aladino.

Aladino prese solo quattro delle dieci borse e le diede alla madre dicendole che servivano per le sue necessità. Le altre sei le lasciò tra le mani degli schiavi che le portavano, con l’ordine di reggerle e di gettare manciate di monete d’oro al popolo, attraverso le strade che dovevano percorrere per andare al palazzo del sultano. Ordinò ancora che lo precedessero insieme con gli altri schiavi, tre a destra e tre a sinistra. Infine presentò alla madre le sei schiave, dicendole che le appartenevano e poteva servirsene da padrona, e che gli abiti che esse avevano portato erano per suo proprio uso. Quando Aladino ebbe predisposto ogni cosa, disse al genio, congedandolo, che l’avrebbe chiamato quando avesse avuto bisogno dei suoi servigi, e subito il genio sparì. Allora Aladino ad altro non pensò se non a esaudire al più presto il desiderio che il sultano aveva manifestato di vederlo. Mandò anche d’urgenza al palazzo uno dei schiavi, non dirò il più bello, perché lo erano tutti in misura, con l’ordine di rivolgersi al capo degli uscieri e di chiedergli quando egli avrebbe potuto avere l’onore di andare a gettarsi ai piedi del sultano. Lo schiavo non impiegò molto a eseguire l’ordine: venne con la risposta che il sultano lo attendeva con impazienza. Aladino salì subito a cavallo e si mise in cammino, nell’ordine che abbiamo indicato. Sebbene egli non fosse mai andato a cavallo, tuttavia lo fece per la prima volta con tanta grazia, che il più esperto cavaliere non l’avrebbe preso per un novellino. Le vie che attraversò si riempirono, quasi in un attimo, di una innumerevole folla di popolo, che faceva risuonare l’aria di acclamazioni, di grida di ammirazione e di benedizioni, soprattutto ogni volta che i sei schiavi che portavano le borse lanciavano in aria manciate di monete d’oro a destra e a sinistra. Tuttavia queste acclamazioni non venivano da quelli che si spingevano e si abbassavano per raccogliere le monete, ma da quelli che, di condizione superiore al popolino, non potevano impedirsi di rendere pubblicamente alla liberalità di Aladino le lodi che essa meritava. Non solo quelli che si ricordavano di averlo visto giocare nelle strade, già grandicello, come un vagabondo, non lo riconoscevano più; anche quelli che l’avevano visto più di recente faticavano a riconoscerlo, tanto i suoi lineamenti erano cambiati. Questo derivava dal fatto che la lampada aveva la proprietà di procurare gradualmente, a coloro che la possedevano, le doti convenienti allo stato al quale essi giungevano grazie al buon uso che ne facevano. Perciò si prestò molta più attenzione alla persona di Aladino che non al fasto che lo accompagnava: la maggior parte, infatti, avevano già ammirato quello sfarzo, lo stesso giorno, durante il corteo degli schiavi che avevano portato o accompagnato il dono. Tuttavia il cavallo fu ammirato dai buoni intenditori, i quali seppero riconoscerne la bellezza senza lasciarsi abbagliare né dalla ricchezza né dal fulgore dei diamanti e delle altre pietre da cui era ricoperto.

Poiché si era sparsa la voce che il sultano dava la principessa in moglie ad Aladino, nessuno, senza far caso alla sua origine, portò invidia alla sua fortuna e all’alto grado al quale stava per essere elevato, tanto ne sembrò degno. Aladino arrivò a palazzo, dove tutto era pronto per riceverlo. Giunto alla seconda porta, volle scendere a terra, per adeguarsi all’uso osservato dal gran visir, dai generali d’armata e dai governatori di province di primo grado; ma il capo degli uscieri, che lo stava aspettando per ordine del sultano, glielo impedì e lo accompagnò fino alla sala del consiglio e dell’udienza, dove lo aiutò a scendere da cavallo sebbene Aladino vi si opponesse risolutamente e non volesse permetterlo; ma gli fu impossibile. Intanto gli uscieri formavano una doppia ala all’ingresso della sala. Il loro capo mise Aladino alla sua destra e, dopo averlo fatto passare al centro, lo portò fino al trono del sultano. Non appena il sultano ebbe visto Aladino, si stupì enormemente di vederlo vestito più riccamente e più magnificamente di quanto egli stesso non lo fosse mai stato; fu anche stupito del suo aspetto, della sua bella statura e da una certa aria di grandezza ben lungi dall’aria dimessa con cui la madre era apparsa davanti a lui. Il suo stupore e la sua meraviglia non gli impedirono, tuttavia, di alzarsi e scendere due o tre gradini del trono abbastanza prontamente da impedire ad Aladino di gettarsi ai suoi piedi, e per abbracciarlo con una dimostrazione piena d’amicizia. Dopo questa cortesia, Aladino volle ancora gettarsi ai piedi del sultano; ma il sultano lo trattenne con la mano e lo costrinse a salire e a sedersi tra lui e il visir. Allora Aladino cominciò a parlare e disse: “Sire, io ricevo gli onori che vostra Maestà mi fa, perché ha la bontà e il piacere di farmeli. Mi permetterete di dirvi che non ho affatto dimenticato di essere nato vostro schiavo, che conosco la grandezza della vostra potenza e non ignoro quanto la mia origine mi ponga più in basso dello splendore e dello sfarzo del sommo grado della Maestà Vostra. Se c’è qualche cosa,” aggiunse, “per la quale posso aver meritato un’accoglienza così favorevole, confesso che lo devo soltanto all’ardire che, per un puro caso, ha fatto innalzare i miei occhi, i miei pensieri e i miei desideri fino alla divina principessa che è l’oggetto dei miei sogni. Chiedo perdono a Vostra Maestà della mia temerarietà;ma non posso nascondere che morirei di dolore se perdessi la speranza di vederli esauditi.” “Figlio mio,” rispose il sultano abbracciandolo una seconda volta,” “mi fareste torto a dubitare un solo momento della sincerità della mia parola. La vostra vita mi è troppo cara ormai perché io non ve la conservi, offrendovi il rimedio di cui dispongo. Preferisco il piacere di vedervi e di ascoltarvi a tutti i miei tesori uniti ai vostri.” Dette queste parole, il sultano fece un segnale,e subito si sentì l’aria risuonare del suono delle trombe, degli oboi e dei timpani;e, nello stesso tempo, il sultano portò Aladino in un magnifico salone, dove fu servito un sontuoso banchetto. Il sultano mangiò solo con Aladino. Il gran visir e i signori della corte, ognuno secondo la propria dignità e il proprio grado, tennero loro compagnia durante il pranzo. Il sultano, che aveva sempre gli occhi fissi su Aladino, tanto provava piacere a guardarlo, fece cadere il discorso su parecchi argomenti differenti. Nel corso della conversazione che ebbero insieme durante il pranzo, e qualunque argomento egli toccasse, Aladino parlò con tanta cognizione di causa e tanta saggezza che finì di convalidare la buona opinione che subito il sultano si era fatta di lui.

Finito il pranzo,il sultano fece chiamare il primo giudice della sua capitale e gli ordinò di stendere e mettere subito in bella copia il contratto di matrimonio tra la principessa sua figlia e Aladino. Intanto,il sultano si intrattenne con Aladino su parecchie cose indifferenti, in presenza del gran visir e dei signori della sua corte, che ammirarono la solidità del suo ingegno, la sua grande facilità di parola e di espressione e i pensieri fini e delicati con i quali infiorava la sua conversazione. Quando il giudice ebbe finito di stendere il contratto con tutte le dovute forme, il sultano chiese ad Aladino se volesse restare a palazzo per concludere la cerimonia del matrimonio quello stesso giorno.

“Sire,” rispose Aladino, “nonostante la mia grande impazienza di godere in pieno della bontà della Maestà Vostra, vi supplico di volermi permettere di rinviare le nozze finché non avrò fatto costruire un palazzo per ricevervi la principessa secondo il suo merito e la sua dignità. Vi prego perciò di accordarmi un posto conveniente nell’area del vostro palazzo, affinché abbia più agio di venirvi a presentare i miei omaggi. Non tralascerò niente per fare in modo che il palazzo sia finito con la maggior sollecitudine possibile.” “Figlio mio,” gli disse il sultano, “prendete tutto il terreno che credete necessario; c’è troppo spazio libero davanti al mio palazzo, e avevo io stesso già pensato di occuparlo; ma ricordatevi che voglio vedervi unito al più presto con mia figlia per portare al culmine la mia gioia.” Dette queste parole, abbracciò ancora Aladino, che si congedò dal sultano con la stessa educazione come se fosse stato allevato e avesse sempre vissuto a corte. Aladino risalì a cavallo e tornò a casa, nello stesso modo come era venuto, in mezzo alla stessa folla e alle acclamazioni del popolo che gli augurava ogni sorta di felicità e di prosperità. Appena rientrato e sceso a terra si ritirò da solo in camera sua; prese la lampada e chiamò il genio, come ne aveva l’abitudine. Il genio non si fece aspettare; apparve e gli offrì i suoi servigi. “Genio,” gli disse Aladino, “ho tutte le ragioni per lodare la tua precisione nell’eseguire esattamente tutto quello che finora ho preteso da te, grazie alla potenza di questa lampada, tua padrona. Oggi si tratta di questo: per amor suo, devi mostrare, se possibile, più zelo e più fretta di quanto hai fatto finora. Ti chiedo dunque che, nel minor tempo possibile, tu mi faccia costruire proprio di fronte al palazzo del sultano, a un’adeguata distanza, un palazzo degno di accogliere la principessa mia sposa. Ti lascio libera scelta dei materiali, cioè porfido, diaspro, agata, lapislazzuli e il marmo più pregiato e dei più svariati colori, e del resto dell’edificio; ma voglio che, nel punto più alto del palazzo, tu faccia innalzare un salone a cupola, con quattro pareti uguali, i cui mattoni siano unicamente di oro e argento massiccio, messi alternativamente, con dodici finestre sei da ogni lato, e le persiane di ogni finestra, a eccezione di una sola, che voglio sia lasciata incompiuta, siano arricchite, con arte e simmetria, da diamanti, rubini e smeraldi, in modo tale che al mondo non si sia mai visto niente di simile. Voglio anche che questo palazzo sia completato da un cortile anteriore, da una corte e da un giardino, ma, sopra ogni cosa, voglio che ci sia, in un posto che mi indicherai, una stanza del tesoro piena di oro e di denaro contante. Voglio anche che nel palazzo vi siano cucine, dispense, magazzini, depositi pieni di mobili preziosi per tutte le stagioni e adatti alla magnificenza del palazzo; scuderie piene dei più bei cavalli, con i loro scudieri e i loro palafrenieri, senza dimenticare una completa attrezzatura da caccia. Devono anche esservi camerieri addetti alla cucina e alla dispensa, e delle schiave necessarie al servizio della principessa. Devi aver capito la mia intenzione; và e torna quando ciò sarà fatto.”

Il sole era appena tramontato quando Aladino finì di dare al genio l’incarico della costruzione del palazzo che aveva immaginato. Il giorno dopo, all’alba, Aladino, al quale l’amore per la principessa impediva di dormire tranquillamente, si era appena alzato, quando gli si presentò il genio. “Signore,” disse, “il vostro palazzo è finito; venite a vedere se ne siete soddisfatto.” Aladino aveva appena accettato di andarvi, quando il genio ve lo trasportò in un attimo. Aladino lo giudicò così superiore alla sua aspettativa, che non si stancava di ammirarlo. Il genio lo portò in tutti i posti; e dovunque egli trovò soltanto ricchezze, eleganza e magnificenza, con servitori e schiavi tutti vestiti secondo il loro grado e secondo il servizio al quale erano destinati. Non mancò di fargli vedere, come una delle cose principali, la stanza del tesoro, la cui porta fu aperta dal tesoriere; e Aladino vi vide cumuli di borse di diverse misure, secondo le somme che contenevano, che arrivavano fino al soffitto e disposte in un ordine gradito alla vista. Uscendo, il genio lo assicurò della fedeltà del tesoriere. Poi lo portò alle scuderie; e là gli fece vedere i più bei cavalli che ci fossero al mondo e i palafrenieri in grande attività intenti a governarli. Poi gli fece visitare i depositi pieni di tutte le provviste necessarie, sia per i finimenti dei cavalli sia per il loro nutrimento. Quando Aladino ebbe esaminato tutto il palazzo, di appartamento in appartamento e di stanza in stanza, da cima a fondo, e particolarmente il salone delle ventiquattro finestre, e dopo avervi ammirato delle ricchezze e una magnificenza unite a ogni tipo di comodità, ben oltre quanto si era ripromesso, disse al genio: “Genio, non si può essere più contenti di quanto lo sono io, e avrei torto di lamentarmi. Resta solo una cosa che non ti avevo detto, perché non ci avevo pensato: devi stendere cioè, dalla porta del palazzo del sultano fino alla porta dell’appartamento destinato alla principessa in questo palazzo, un tappeto del più bel velluto, affinché lei vi cammini sopra venendo dal palazzo del sultano.” “Torno in un attimo” disse il genio. Ed era appena sparito quando, poco dopo, Aladino fu stupito vedendo il suo ordine eseguito senza sapere come ciò fosse avvenuto. Il genio riapparve e riportò Aladino a casa sua nel momento in cui la porta del palazzo del sultano stava per essere aperta. I portinai del palazzo che avevano aperto la porta, e che fino a quel momento avevano sempre visto uno spazio libero dove ora sorgeva il palazzo di Aladino, furono molto stupiti vedendolo limitato e notando un tappeto di velluto che, venendo da quella parte, arrivava fino alla porta del palazzo del sultano. In un primo momento non distinsero bene che cosa fosse; ma la loro meraviglia aumentò quando ebbero visto distintamente lo splendido palazzo di Aladino.

La notizia di una meraviglia così stupefacente si diffuse in pochissimo tempo in tutto il palazzo. Il gran visir, che era arrivato quasi all’apertura della porta del palazzo, non era stato meno stupito degli altri da questa novità, la comunicò al sultano per primo, cercando di convincerlo che si trattava di un incantesimo. “Visir,” rispose il sultano, “perché volete che sia un incantesimo? Sapete bene come me che si tratta del palazzo fatto costruire da Aladino, con il permesso che gli ho accordato in presenza vostra, per la principessa mia figlia. Dopo le prove che ci ha dato delle sue ricchezze, può sembrarci strano che egli abbia fatto costruire questo palazzo in così poco tempo? Egli ha voluto sbalordirci e farci vedere che con il denaro contante si possono fare miracoli simili da un giorno all’altro. Confessatemi che l’incantesimo di cui avete voluto parlare deriva da un pò di gelosia.” L’ora di entrare al consiglio gli impedì di continuare più a lungo questo discorso.

Aladino, dopo essere stato trasportato a casa sua e aver congedato il genio, trovò sua madre già alzata sul punto d’indossare uno degli abiti che egli aveva fatto portare. All’incirca all’ora in cui il sultano stava uscendo dal consiglio, Aladino disse alla madre di andare a palazzo, con le stesse schiave procuratele dal genio. La pregò, se vedeva il sultano, di dichiarargli che andava da lui per avere l’onore di accompagnare verso sera la principessa, quando fosse stata pronta per passare nel suo palazzo. La madre partì; ma, sebbene lei e le schiave che la seguivano fossero vestite come sultane, tuttavia non si riunì una gran folla al loro passaggio, tanto più che erano velate e un discreto mantello ricopriva la ricchezza e la magnificenza dei loro abiti. Intanto Aladino salì a cavallo; e, dopo essere uscito dalla casa paterna per non tornarvi mai più, senza aver dimenticato la lampada meravigliosa il cui aiuto gli era stato così utile per giungere al culmine della sua fortuna, andò pubblicamente al suo palazzo, con lo stesso sfarzo con il quale si era presentato al sultano il giorno prima. Appena i portinai del palazzo del sultano videro la madre di Aladino, avvertirono il sultano. Subito fu dato l’ordine ai suonatori di trombe, di timpani, di tamburi, di pifferi e di oboi, che erano già pronti in vari punti delle terrazze del palazzo e, in un momento, l’aria risuonò di fanfare e di concerti che comunicarono la gioia a tutta la città. I mercanti cominciarono ad adornare le loro botteghe con bei tappeti, cuscini e fogliame e a preparare le luminarie per la notte. Gli artigiani lasciarono il loro lavoro, e il popolo andò allora tra il palazzo del sultano e quello di Aladino. Quest’ultimo attirò subito la loro ammirazione, non tanto perché erano abituati a vedere solo il palazzo del sultano, quanto perché questo non poteva gareggiare con quello di Aladino; ma quello che li stupì più di tutto fu di non riuscire a capire per quale meraviglia inaudita essi vedevano un così magnifico palazzo in un posto dove, il giorno prima, non c’erano né materiali né fondamenta preparati. La madre di Aladino fu ricevuta con onore nel palazzo, e introdotta nell’appartamento della principessa dal capo degli eunuchi. Appena la principessa la vide, andò ad abbracciarla e la fece sedere sul divano; e, mentre le sue ancelle finivano di vestirla e di adornarla con i più preziosi gioielli donati da Aladino, lei le offrì una magnifica merenda. Il sultano, che veniva per restare il più possibile vicino alla principessa sua figlia, prima che si separasse da lui per passare nel palazzo di Aladino, fece anche a lei grandi onori. La madre di Aladino aveva parlato parecchie volte al sultano in pubblico; ma egli non l’aveva mai vista senza velo come era in quel momento. Sebbene fosse già in età un pò avanzata, si notavano ancora sul suo viso dei segni che facevano facilmente capire che in gioventù era stata nel numero delle belle. Il sultano, che l’aveva sempre vista vestita molto semplicemente, per non dire poveramente, era ammirato vedendola vestita con la stessa ricchezza e la stessa magnificenza della principessa sua figlia. Questo lo indusse a riflettere sul fatto che Aladino era ugualmente saggio, prudente e intelligente in ogni cosa. Quando arrivò la notte, la principessa prese congedo dal sultano suo padre. I loro addii furono teneri e mescolati alle lacrime. I due si abbracciarono parecchie volte senza dirsi niente, e infine la principessa uscì dal suo appartamento e si incamminò, con la madre di Aladino alla sua sinistra, seguita da cento schiave, vestite con grandissima magnificenza. Tutti i gruppi di suonatori, che non avevano smesso di farsi sentire dall’arrivo della madre di Aladino, si erano riuniti e precedevano il corteo; essi erano seguiti da cento “sciau” e da altrettanti eunuchi negri disposti in due file con gli ufficiali alla loro testa. Quattrocento giovani paggi del sultano, in due ali, che marciavano ai lati, ognuno con una fiaccola in mano, facevano una luce che, aggiunta alle illuminazioni del palazzo del sultano e di quello di Aladino, suppliva ammirevolmente alla mancanza della luce del giorno. In quest’ordine la principessa procedette sul tappeto disteso dal palazzo del sultano fino al palazzo di Aladino; e, via via che avanzava, gli strumenti che aprivano il corteo, avvicinandosi e mescolandosi a quelli che si facevano sentire dall’alto delle terrazze del palazzo di Aladino, formarono un concerto che, per straordinario e confuso che sembrasse, accresceva ugualmente la gioia, non solo nella piazza piena di una gran folla, ma anche nei due palazzi, in tutta la città e ben lontano nei dintorni. La principessa arrivò al nuovo palazzo, e Aladino corse, con tutta la gioia immaginabile, alla porta dell’appartamento che le era destinato, per riceverla. La madre di Aladino aveva avuto cura di far notare suo figlio alla principessa in mezzo agli ufficiali che lo circondavano; e la principessa, vedendolo, lo giudicò così ben fatto che ne fu incantata. “Adorabile principessa,”le disse Aladino avvicinandosi e salutandola molto rispettosamente, “se avessi la disgrazia di esservi dispiaciuto con la mia temerarietà di aspirare al possesso di una così amabile principessa, oso dirvi che dovreste rimproverare i vostri begli occhi e le vostre grazie, e non me.” “Principe, poiché ora sono in diritto di chiamarvi così,” gli rispose la principessa, “ubbidisco alla volontà del sultano mio padre; e mi basta avervi visto per dirvi che gli ubbidisco senza riluttanza.” Aladino, felice per una risposta così favorevole e soddisfacente per lui, non lasciò più a lungo la principessa in piedi, dopo il cammino che aveva fatto e al quale non era per niente abituata, le prese la mano, la baciò con una grande dimostrazione di gioia, e la guidò in una grande sala, illuminata da un’infinità di candele, dove, per le cure del genio, la tavola si trovò apparecchiata per un sontuoso banchetto. I piatti erano di oro massiccio e pieni dei cibi più deliziosi. I vasi, i vassoi, i bicchieri, di cui la credenza era ben fornita, erano anch’essi d’oro e di mirabile fattura. Gli altri ornamenti e tutte le decorazioni della sala corrispondevano perfettamente a questa grande ricchezza. La principessa, incantata di vedere tante magnificenze riunite in uno stesso luogo, disse ad Aladino: “Principe, io credevo che niente al mondo fosse più bello del palazzo del sultano mio padre; ma, soltanto vedendo questa sala, mi accorgo che mi ero ingannata.” “Principessa,” rispose Aladino facendola sedere a tavola, al posto che le era destinato, “ricevo come devo un così grande complimento; ma so che cosa devo credere.”

La principessa Badr al-Budur, Aladino, e sua madre si misero a tavola; e subito la musica dei più armoniosi strumenti, accompagnati da bellissime voci di donna, che appartenevano a fanciulle tutte di grande bellezza, diede inizio a un concerto che durò senza interruzione fino alla fine del pasto. La principessa ne fu così conquistata che disse di non aver mai sentito niente di simile nel palazzo del sultano suo padre. Ma non sapeva che queste musiciste erano state scelte dal genio, schiavo della lampada. Quando ebbero finito di cenare, la tavola fu sparecchiata in fretta e un gruppo di danzatori e danzatrici subentrò alle musicanti. Ballavano parecchi tipi di danze figurate, secondo il costume del paese, e, alla fine un danzatore e una danzatrice ballarono da soli con sorprendente leggiadria dimostrando, ognuno, tutta la delicata grazia e l’abilità di cui erano capaci. Era quasi mezzanotte quando, secondo il costume di allora in Cina, Aladino si alzò e offrì la mano alla principessa, per danzare insieme e mettere così termine alle cerimonie delle loro nozze. Danzarono con tanta grazia da suscitare l’ammirazione di tutti i presenti.

Quando ebbero finito Aladino non lasciò la mano della principessa, e passarono insieme nell’appartamento dov’era preparato il letto nuziale. Le ancelle della principessa la aiutarono a spogliarsi e a mettersi a letto, e i valletti di Aladino fecero lo stesso con lui; poi si ritirarono tutti. Così terminarono le cerimonie e i festeggiamenti delle nozze di Aladino con la principessa Badr al-Budur.

Il giorno dopo, quando Aladino fu sveglio, i suoi valletti di camera si presentarono per vestirlo. Gli fecero indossare un abito diverso da quello del giorno delle nozze, ma ugualmente ricco e magnifico. Poi egli si fece portare uno dei cavalli destinati al suo uso personale. Vi montò e andò al palazzo del sultano, in mezzo a una folta schiera di schiavi che camminavano davanti, ai lati e dietro di lui. Il sultano lo ricevette con gli stessi onori della prima volta; lo abbracciò e, dopo averlo fatto sedere accanto a sé, sul suo trono, ordinò di servire la colazione. “Sire,” gli disse Aladino, “supplico Vostra Maestà di dispensarmi oggi da questo privilegio; vengo a pregarvi di farmi l’onore di venire a pranzo nel palazzo della principessa, insieme col gran visir e con i signori della corte.” Il sultano gli accordò con piacere la grazia. Si alzò subito; e, poiché il percorso non era lungo, volle andare a piedi. Perciò uscì con Aladino alla sua destra, il gran visir alla sua sinistra, seguito dai suoi dignitari e preceduto dagli “sciau” e dai dignitari della casa. Quanto più il sultano si avvicinava al palazzo di Aladino, tanto più era colpito dalla sua bellezza. Poi, una volta entrato, non seppe più trattenersi: le sue entusiastiche lodi si ripetevano in ogni stanza che vedeva. Ma quando arrivarono nel salone delle ventiquattro finestre, dove Aladino l’aveva invitato a salire, quando ne ebbe visto gli ornamenti e, soprattutto, quando ebbe rivolto lo sguardo alle persiane arricchite da diamanti, rubini e smeraldi, tutte pietre perfette per la loro grandezza proporzionata, e quando Aladino gli ebbe fatto notare che esse erano egualmente ricche anche all’esterno, ne fu talmente stupito che restò come impietrito. Dopo esser rimasto per un pò in questo stato: “Visir,” disse al ministro che era vicino a lui, “è possibile che nel mio regno, e così vicino al mio palazzo, ci sia un palazzo così splendido, e che io l’abbia ignorato fino a questo momento?” “Vi ricordate, Maestà,” rispose il gran visir, “di aver accordato l’altro ieri ad Aladino, che avevate appena riconosciuto come genero, il permesso di costruire un palazzo di fronte al vostro; lo stesso giorno, al tramonto, non c’era ancora nessun palazzo in questo posto: e ieri ebbi l’onore di annunciarvi per primo che il palazzo era fatto e terminato.” “Me ne ricordo,” disse il sultano; “ma non avrei mai immaginato che questo palazzo fosse una delle meraviglie del mondo. Dove si possono trovare, in tutto l’universo, palazzi costruiti con mattoni d’oro e d’argento massicci, invece di mattoni di pietra o di marmo, le cui finestre abbiano delle persiane cosparse di diamanti, rubini e smeraldi? Mai, al mondo, è stata fatta menzione di niente di simile!” Il sultano volle vedere e ammirare la bellezza delle ventiquattro persiane. Contandole, si accorse che soltanto ventitrè erano della stessa ricchezza, e fu molto stupito vedendo che la ventiquattresima era rimasta incompiuta. “Visir,” disse (infatti il visir si faceva un impegno di non abbandonarlo un minuto), “mi stupisce che un salone di questa magnificenza sia rimasto incompiuto in questo punto.” “Sire,” rispose il gran visir, “evidentemente Aladino aveva fretta, e gli è mancato il tempo per rendere questa finestra simile alle altre; ma dobbiamo immaginare che egli abbia le pietre necessarie e che la farà completare al più presto.” Aladino, che aveva lasciato il sultano per dare alcuni ordini, lo raggiunse in quel momento. “Figlio mio,” gli disse il sultano; “questo è il salone più degno di ammirazione di tutti quelli che esistano al mondo. Una sola cosa mi stupisce: vedere che questa persiana è rimasta incompiuta. Èper dimenticanza” aggiunse, “per negligenza, o perché gli operai non hanno avuto il tempo di dare l’ultima mano a un così bel pezzo di architettura?” “Sire,” rispose Aladino, “per nessuna di queste ragioni la persiana è rimasta nello stato in cui Vostra Maestà la vede. La cosa è stata fatta di proposito, e gli operai non l’hanno completata per mio ordine: volevo che Vostra Maestà avesse la gloria di far terminare questo salone e il palazzo contemporaneamente. Vi supplico di voler gradire la mia buona intenzione, affinché io possa ricordarmi del favore e della grazia che avrò ricevuto da voi.” “Se l’avete fatto con questa intenzione,” riprese il sultano, ve ne sono molto grato; in questo stesso momento vado a dare gli ordini necessari.” Infatti, ordinò di far venire i gioiellieri più forniti di pietre preziose e gli orafi più abili della sua capitale.

Intanto il sultano lasciò il salone, e Aladino lo portò in quello dove, il giorno delle nozze, aveva offerto il banchetto alla principessa, la quale arrivò un momento dopo, ricevette il sultano suo padre con un’aria che gli fece capire quanto lei fosse contenta del suo matrimonio. Due tavole erano imbandite con i cibi più delicati, tutti serviti in vasellame d’oro. Il sultano sedette alla prima e mangiò con la principessa sua figlia, Aladino e il gran visir. Tutti i signori della corte furono serviti alla seconda tavola che era molto lunga. Il sultano trovò i cibi di suo gusto, e confessò di non aver mai mangiato niente di più squisito. Disse la stessa cosa del vino che, in effetti, era delizioso. Più di ogni cosa, ammirò quattro grandi credenze fornite e cariche a profusione di bottiglie, vassoi e coppe d’oro massiccio, il tutto ornato di pietre preziose. Fu anche deliziato dai cori di musica che erano disposti nel salone, mentre le fanfare delle trombe, accompagnate da timpani e da tamburi, risuonavano all’esterno, alla giusta distanza perché se ne gustasse tutto il piacere. Il sultano si era appena alzato da tavola, quando lo avvisarono che i gioiellieri e gli orafi, chiamati per suo ordine, erano arrivati. Egli risalì nel salone delle ventiquattro finestre, e, arrivatovi, fece vedere ai gioiellieri e agli orafi, che l’avevano seguito, la finestra incompiuta e disse: “Vi ho fatto venire affinché completiate questa finestra e la rendiate perfetta come le altre; esaminatele, e non perdete tempo a rendere questa del tutto simile alle altre.” I gioiellieri e gli orafi esaminarono con grande attenzione le altre ventitrè e, dopo essersi consultati tra di loro e avere stabilito in che modo ognuno potesse contribuire a quest’opera, tornarono a presentarsi al sultano; e il gioielliere personale del palazzo gli disse: “Sire, siamo pronti a impiegare le nostre cure e la nostra arte per ubbidire a Vostra Maestà; ma, tutti noi della nostra professione, non abbiamo pietre altrettanto preziose e tanto numerose da bastare per un così importante lavoro.” “Io ne ho,” disse il sultano, “e più di quante ne servano; venite al mio palazzo; vi faciliterò il compito, e voi sceglierete.”

Quando il sultano fu di ritorno al suo palazzo, fece portare tutte le pietre preziose, e i gioiellieri ne presero una grandissima quantità, particolarmente fra quelle che facevano parte del dono di Aladino. Le utilizzarono senza dimostrare di aver molto progredito nel loro lavoro. Tornarono a prenderne altre a più riprese; e, in un mese, non avevano finito neanche la metà dell’opera. Impiegarono tutte le pietre del sultano insieme con quelle che gli prestò il visir, e, con tutto ciò, quello che riuscirono a fare fu al massimo di completare mezza finestra. Aladino, che seppe che il sultano si sforzava inutilmente di rendere la persiana simile alle altre, e che non avrebbe mai avuto successo, fece venire gli orafi e disse loro non soltanto di interrompere il lavoro, ma anche di disfare tutto quello che avevano fatto e di riportare al sultano tutte le sue pietre, insieme con quelle prestategli dal gran visir. L’opera alla quale i gioiellieri e gli orafi avevano lavorato più di sei settimane fu distrutta in poche ore. Essi si ritirarono e lasciarono Aladino solo nel salone. Egli prese la lampada che portava addosso, e la strofinò. Subito si presentò il genio. “Genio,” gli disse Aladino, “io ti avevo ordinato di lasciare incompiuta una delle ventiquattro finestre di questo salone, e tu avevi eseguito il mio ordine; ora ti ho fatto venire per dirti che voglio che tu la renda simile alle altre.” Il genio sparì, e Aladino lasciò il salone. Quando, pochi minuti dopo, vi ritornò, trovò la persiana nello stato che aveva desiderato, e uguale alle altre. Intanto, i gioiellieri e gli orafi arrivarono a palazzo e furono introdotti e presentati al sultano nel suo appartamento. Il primo gioielliere, restituendogli le pietre, disse al sultano, a nome di tutti: “Sire, Vostra Maestà sa da quanto tempo lavoriamo con tutta la nostra solerzia per finire il lavoro che ci ha affidato. Era già a buon punto, quando Aladino ci ha costretto non solo a interrompere il lavoro, ma anche a disfare tutto quello che avevamo fatto e a riportarvi queste pietre e quelle del gran visir.” Il sultano chiese se Aladino non ne avesse detto loro la ragione, e non appena essi gli ebbero precisato che lui non ne aveva data nessuna il sultano ordinò subito che gli portassero un cavallo. Glielo portano, ci sale su e parte senz’altro seguito tranne il domestico che lo accompagna a piedi. Arriva al palazzo di Aladino e scende a terra, ai piedi della scala che conduceva al salone delle ventiquattro finestre. Sale senza far avvertire Aladino, ma Aladino fortunatamente vi si trovava ed ebbe appena il tempo di ricevere il sultano sulla porta. Il sultano, senza dare ad Aladino il tempo di addurre qualche cortese rimostranza per non averlo fatto avvertire del suo arrivo, costringendolo perciò a venir meno al suo dovere, gli disse: “Figlio mio, vengo a chiedervi di persona per quale ragione avete voluto lasciare incompiuto un salone così magnifico e così singolare come quello del vostro palazzo.” Aladino nascose la vera ragione, quella cioè che il sultano non possedesse abbastanza pietre preziose per una spesa così forte. Ma, per fargli capire quanto il palazzo, così com’era, superava non solo quello del sultano, ma anche ogni altro palazzo del mondo, poiché egli non era riuscito a finirlo nella più piccola delle sue parti, gli rispose: “Sire, è vero che Vostra Maestà ha visto questo salone incompiuto; ma vi supplico di vedere se ora manca qualcosa.” Il sultano andò spedito alla finestra di cui aveva visto la persiana incompiuta, e, quando ebbe notato che era uguale alle altre, pensò di essersi ingannato. Esaminò non solo le due finestre che erano ai lati, le guardò persino tutte, una dopo l’altra e, quando fu convinto che la persiana, intorno alla quale aveva fatto lavorare per tanto tempo e che era costata tante giornate di mano d’opera, era stata finita in così breve tempo come gli era noto, abbracciò Aladino e lo baciò in fronte fra gli occhi. “Figlio mio,” gli disse pieno di stupore, “che uomo siete voi, che fate cose tanto stupefacenti e quasi in un batter d’occhio? Voi non avete simili al mondo; e, più vi conosco, più vi giudico straordinario!” Aladino accolse le lodi del sultano con grande modestia e gli rispose in questi termini: “Sire, è una grande gloria per me meritare la benevolenza e l’approvazione di Vostra Maestà. Posso assicurarvi, in ogni caso, che non tralascerò niente per meritarle entrambe sempre di più.” Il sultano tornò al suo palazzo nel modo in cui era venuto, senza permettere ad Aladino di accompagnarlo.

Arrivando, trovò il gran visir che lo aspettava. Il sultano, ancora in preda all’ammirazione per la meraviglia alla quale aveva assistito, gliene fece il racconto in termini tali da non far dubitare al ministro che la cosa fosse veramente come il sultano gliela raccontava, ma questo fatto confermò l’opinione del visir che il palazzo di Aladino fosse l’effetto di un incantesimo: opinione che aveva comunicato al sultano, quasi nello stesso momento in cui il palazzo era apparso. Volle ripetergliela ancora. “Visir,” gli disse il sultano interrompendolo, “mi avete già detto la stessa cosa, ma vedo bene che non avete ancora dimenticato il matrimonio di mia figlia con vostro figlio.” Il gran visir capì che il sultano era prevenuto: non volle discutere con lui, e lo lasciò nella sua opinione. Tutti i giorni, regolarmente, appena il sultano si alzava, non mancava mai di andare in uno stanzino da dove si vedeva tutto il palazzo di Aladino, e vi ritornava parecchie volte durante la giornata per contemplarlo e ammirarlo. Aladino non rimaneva chiuso nel suo palazzo: aveva cura di farsi vedere in città più di una volta alla settimana, sia che andasse a recitare la sua preghiera in una moschea o nell’altra, sia che, di tanto in tanto, andasse a visitare il gran visir, che andava con ostentazione a presentargli i suoi omaggi nei giorni stabiliti, o che rendesse ai notabili, che invitava spesso a pranzo nel suo palazzo, l’onore di andarli a trovare a casa loro. Ogni volta che usciva, faceva lanciare, da due degli schiavi che camminavano in gruppo intorno al suo cavallo, manciate di monete d’oro nelle vie e nelle piazze per le quali passava, e dove il popolo andava sempre numeroso. D’altronde, non c’era povero che si presentasse alla porta del suo palazzo, che non se ne tornasse contento della liberalità fatta per suo ordine.

Poiché Aladino aveva diviso il suo tempo in modo che non c’era settimana in cui non andasse almeno una volta a caccia, ora nei dintorni della città, ora più lontano, egli esercitava la stessa liberalità nelle strade di campagna e nei villaggi. Questa generosa tendenza fece sì che tutto il popolo gli mandasse mille benedizioni e avesse una cieca fiducia in lui. Insomma, senza dare nessun’ombra al sultano, al quale dimostrava molto regolarmente la devozione, si può dire che Aladino si fosse attirato con le sue maniere affabili liberali tutto l’affetto del popolo, e che, in genere, fosse più amato dello stesso sultano. Egli aggiunse a tutte queste belle qualità un valore e uno zelo per il bene dello Stato che non si potrebbero lodare a sufficienza. Ne diede anche segni in occasione di una rivolta scoppiata verso i confini del regno. Appena seppe che il sultano arruolava un esercito per soffocarla, lo supplicò di affidargliene il comando. Non faticò molto a ottenerlo. Appena fu alla testa dell’esercito, lo fece marciare contro i rivoltosi; e, in tutta questa spedizione, si comportò con tanto zelo, che il sultano seppe che i rivoltosi erano stati sconfitti, puniti o dispersi, prima di aver raggiunto l’esercito. Quest’azione, che rese il suo nome celebre per tutto il regno, non cambiò affatto il suo cuore. Tornò vittorioso, ma affabile come era sempre stato.

- Fiaberella
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