La fiaba di Nùr ad-Dìn Alì e di Badr ad-Dìn Hassan- Parte III
Intanto permise alle genti del suo seguito di andare fino a Damasco. Quasi tutti approfittarono del permesso, gli uni, spinti dalla curiosità di vedere una città della quale avevano inteso parlare favorevolmente, gli altri, per vendervi delle mercanzie portate dall’Egitto, o per comprarvi delle stoffe e delle rarità del paese. Dama di Bellezza, volendo che suo figlio Agib si divertisse, passeggiando in quella celebre città, ordinò all’eunuco nero, il quale serviva come di guida a questo fanciullo, di condurvelo. Agib, magnificamente vestito, si pose in cammino con l’eunuco. Non appena entrati in città, Agib, bello come il giorno, attirò su di lui gli sguardi di tutti. Gli uni uscivano dalle case per vederlo più da vicino, gli altri si recavano alle finestre e quelli che lo incontravano per la strada non si contentavano di guardarlo, ma lo accompagnavano per osservarlo più lungamente. Infine non vi era alcuno che non l’ammirasse e che non benedicesse il padre e la madre, i quali avevano dato la vita a un così bel fanciullo.
L’eunuco e il ragazzo arrivarono per caso innanzi la bottega in cui era Badr ad-Dìn Hassan, e là si videro circondati da una così gran folla, che furono obbligati ad arrestarsi. Il pasticcere, che aveva adottato Badr ad-Dìn Hassan, essendo morto da alcuni anni, lo aveva lasciato erede della sua bottega e di tutti gli altri suoi beni. Badr ad-Dìn era dunque padrone della bottega ed esercitava la professione di pasticcere così bene, che godeva molta reputazione in Damasco. Vedendo tanta gente affollata innanzi alla sua porta, intenta ad ammirare Agib e l’eunuco nero, anche esso si pose a guardarli. Badr ad-Dìn Hassan fissando gli occhi su Agib, si sentì immantinente tutto commuovere, senza saperne la ragione. Egli non era scosso come il popolo dalla grande bellezza di quel giovanetto, il suo turbamento e la sua emozione avevano una sconosciuta sorgente. La forza del sangue operava sul padre, e interrompendo le sue occupazioni si avvicinò ad Agib, dicendogli in modi lusinghieri: “Mio piccolo signore, fatemi la grazia di entrare nella bottega per mangiarvi qualche cosa fatta dalle mie mani, affinché io abbia il piacere di contemplarvi a mio agio.” Queste parole furono pronunciate con una indicibile tenerezza, da commuovere il piccolo Agib, il quale rivoltosi all’eunuco: “Questo buon uomo” disse “ha un aspetto che mi piace e mi parla in modo tanto affettuoso, che non posso rifiutarmi di fare quanto desidera. Entriamo dunque da lui e mangiamo della sua pasticceria.” “Ah!” gli rispose lo schiavo “sarebbe bello vedere un figlio di un visir come voi entrare nella bottega di un pasticcere per mangiare. Non crediate che io ve lo permetta.” “Mio buon amico” soggiunse Badrad-Dìn “non impedite a questo giovane signore di accordarmi la grazia che gli ho chiesto. Fatemi piuttosto l’onore di entrare voi pure con lui da me.” L’eunuco, cessò di resistere alle preghiere di Badr ad-Dìn, e lasciando entrare Agib nella sua bottega vi entrò egli pure. Badr ad-Dìn Hassan provò immensa gioia nel vedere compiuto l’ardente suo desiderio, e rimettendosi al lavoro interrotto: “Io facevo” disse “delle torte di fior di latte, occorre che ne mangiate, sono certo che le troverete eccellenti.” Ciò detto ne cavò dal forno una e dopo avervi messo sopra granelli di melagrana e zucchero, la servì innanzi ad Agib che la trovò deliziosa. L’eunuco, cui Badr ad-Dìn ne presentò, la giudicò anch’egli eccellente.
Mentre ambedue mangiavano, Badr ad-Dìn Hassan esaminava Agib con grande attenzione, e pensando, nel riguardarlo, che forse avrebbe avuto un figliolo somigliante dalla leggiadra sposa da cui era stato così presto e crudelmente separato, ruppe in pianto. Volle fare delle domande al piccolo Agib sullo scopo del suo viaggio a Damasco, ma non poté soddisfare la sua curiosità, perché l’eunuco lo condusse via appena ebbe finito di mangiare. Badr ad-Dìn Hassan, non contentandosi di seguirlo con lo sguardo, chiuse prontamente la sua bottega, e seguì i loro passi. Badr ad-Dìn Hassan corse appresso ad Agib e all’eunuco e li raggiunse prima che avessero oltrepassato la città. L’eunuco, essendosi accorto che egli li seguiva, ne fu estremamente sorpreso. “Importuno che siete” gli disse sdegnato “che volete da noi?” “Mio buon amico, non andate in collera, avendo fuori della città un piccolo affare, di cui mi sono ricordato, vado a disbrigarlo.” L’eunuco, non soddisfatto da questa risposta, rivoltosi ad Agib, gli disse: “Ecco quel che è avvenuto, io avevo preveduto che mi sarei pentito della mia compiacenza facendovi entrare nella bottega di costui, non ho operato da saggio, permettendovelo.” “Forse” soggiunse Agib “egli effettivamente ha degli affari fuori della città, e le strade sono libere a ciascuno.” Ciò dicendo, egli e l’eunuco camminavano senza guardarsi dietro. Arrivati alle tende del visir e voltatisi per vedere se Badr ad-Dìn Hassan li seguisse, Agib impallidì e arrossì successivamente, scorgendolo a due passi da lui.
Egli temeva che il visir suo nonno venisse a sapere che egli era entrato nella bottega di un pasticcere e vi aveva mangiato. Spinto da questo timore, raccolse una gran pietra che era ai suoi piedi, e lanciandogliela contro lo colpì nel mezzo della fronte, inondandogli il viso di sangue, poi, mettendosi a correre con ogni sua forza, si mise in salvo sotto le tende con l’eunuco, il quale disse che Badr ad-Dìn Hassan non si doveva dolere di questa sciagura, essendosela meritata. Badr ad-Dìn ripigliò il cammino della città, tergendosi il sangue dalla ferita con il grembiale di cui non si era nemmeno sbarazzato. “Ho fatto male” diceva tra sé “abbandonare la mia bottega, per dare tanta pena a quel ragazzo, che certamente mi ha trattato in tal modo, credendo che io meditassi qualche sinistro disegno a suo danno.”
Come fu giunto a casa si fece medicare, e si consolò dell’accaduto, pensando che sulla terra viveva gente più disgraziata di lui. Badr ad-Dìn continuò a esercitare il suo mestiere a Damasco, da cui suo zio Shams ad-Dìn Mohammed partì tre giorni dopo il suo arrivo. Prese la via di Emesa, poi andò a Hemach, di là ad Aleppo, dove si fermò due giorni. Da Aleppo passò l’Eufrate, entrando nella Mesopotamia, e dopo aver traversato Mardiu, Mussul, Sendira, Diabakir e diverse altre città, arrivò a Bassora, dove domandò un’udienza al sultano, il quale appena seppe il grado di Shams ad-Dìn Mohammed, gliela accordò. Ricevutolo favorevolmente, gli domandò il motivo del suo viaggio a Bassora. “Sire” rispose il visir Shams ad-Dìn “sono venuto per avere notizie del figlio di Nùr ad-Dìn Alì mio fratello, che ha avuto l’onore di servire vostra maestà.” “Nùr ad-Dìn Alì è morto da lungo tempo” ripigliò il sultano. “Riguardo a suo figlio, tutto quello che vi posso dire è che due mesi dopo la morte di suo padre, disparve a un tratto, e nessuno l’ha più veduto da allora in poi, nonostante tutte le cure da me prese per farlo cercare. Ma sua madre, che è figlia di un mio visir, vive ancora.” Sham ad-Dìn Mohammed gli chiese il permesso di vederla e condurla con sé in Egitto, al che il sultano avendo consentito, non volle differire al domani di avere questa consolazione, ed essendosi fatto insegnare la dimora di lei, vi andò sul momento accompagnato dalla figliola e dal nipote.
La vedova di Nùr ad-Dìn Alì abitava sola nel palazzo dove suo marito era morto. Era una bellissima casa, superbamente costruita e ornata di colonne di marmo, Shams ad-Dìn Mohammed non si fermò ad ammirarla. Giungendovi baciò la porta e un marmo su cui era scritto in lettere d’oro il nome di suo fratello, poi chiese di parlare alla sua cognata, i cui domestici gli dissero stare in un piccolo edificio a forma di cupola, che gli mostrarono in mezzo a un cortile spazioso. Questa tenera madre aveva l’uso di passare la miglior parte del giorno e della notte in quell’edificio fatto costruire per rappresentare la tomba di Badr ad-Dìn Hassan, da essa creduto morto, dopo averlo invano lungamente atteso. Ella era occupata allora a piangere un tanto amato figlio, e Shams ad-Dìn Mohammed la trovò immersa in una mortale afflizione. Nel salutarla la pregò di sospendere le sue lacrime e i suoi gemiti, le disse di essere suo cognato, e quali erano le ragioni che lo avevano obbligato a partire dal Cairo per recarsi a Bassora. Shams ad-Dìn Mohammed dopo aver narrato a sua cognata quanto era avvenuto la notte delle nozze di sua figlia e e dopo averle raccontato la sorprendente scoperta delle carte cucite nel turbante di Badr ad-Dìn, le presentò Agib e Dama di Bellezza. Quando la vedova, che se ne stava seduta come una donna che non prende più alcuna parte alle cose del mondo, comprese, dal discorso fattole, che il suo amato figlio che ella tanto piangeva poteva essere ancora in vita, si alzò e abbracciò strettamente Dama di Bellezza e suo nipote Agib nel quale riconobbe la fisionomia di Badr ad-Dìn, versando lacrime ben differenti da quelle versate fino allora. Ella non poteva stancarsi di baciare quel giovinetto, il quale riceveva quegli abbracci con le dimostrazioni della più gran gioia di cui era capace. “Signora” disse Shams ad-Dìn Mohammed “è tempo ormai che lasciate di rammaricarvi, asciugate le vostre lacrime, bisogna che vi disponiate a venire con noi in Egitto. Il sultano di Bassora mi permette di condurvi, e spero di vedere da voi esaudita la mia preghiera. Forse troveremo vostro figlio, mio nipote, e se ciò avverrà, le sue avventure, le vostre, quelle di mia figlia e le mie, meriteranno di essere scritte, per essere tramandate alla posterità.” La vedova ascoltò questo suggerimento con piacere, e fece al momento preparar tutto per la partenza. Shams ad-Dìn Mohammed, domandata una seconda udienza si congedò dal sultano, il quale lo colmò di onori insieme a un dono considerevole per lui, e un altro più ricco per il sultano d’Egitto, dopo ciò partì da Bassora, e riprese il cammino di Damasco. Allorché fu vicino a questa città fece innalzare le sue tende fuori della porta per la quale doveva entrare, e si propose di soggiornarvi tre giorni per far riposare il suo equipaggio e per comprare quel che avrebbe trovato di più curioso e di più degno di essere presentato al sultano d’Egitto.
Mentre si occupava egli stesso a scegliere le più belle stoffe che i principali mercanti avevano recato sotto le sue tende, Agib pregò l’eunuco sua guida di condurlo a passeggiare per la città, avendo gran piacere di sapere notizie del pasticcere da lui ferito. L’eunuco acconsentì, entrarono in Damasco per la porta del Paradiso, la più vicina alle tende del visir Shams ad-Dìn Mohammed, percorsero le grandi piazze, i luoghi pubblici e coperti, dove si vendevano le mercanzie più ricche, e videro l’antica moschea degli Ommiadi. Passarono poi davanti la bottega di Badr ad-Dìn Hassan, che ritrovarono occupato a fare delle torte di fior di latte. “Io vi saluto” gli disse Agib “guardatemi. Vi ricordate voi di avermi veduto?” A queste parole Badr ad-Dìn fissò lo sguardo su di lui, e riconoscendolo (o meraviglioso effetto dell’amor paterno!), sentì la stessa commozione della prima volta, e si confuse, e invece di rispondergli, restò immobile per lungo tempo, senza poter proferire una sola parola. Tuttavia, riprendendosi dal suo sbalordimento: “Mio piccolo signore” gli disse “fatemi la grazia di entrare un’altra volta nella mia bottega con vostro zio, per mangiare una torta di fior di latte. Vi supplico di perdonarmi la pena arrecatavi seguendovi fuori della città. Ero fuori di me stesso, né sapevo quello che facevo. Voi mi trascinavate dietro, senza che io potessi resistere a una violenza tanto cara.” Agib, meravigliato di quanto gli diceva Badr ad-Dìn, rispose: “Eccessivo è l’amore che mi dimostrate, né voglio entrare nella vostra bottega se prima non mi giurate di non seguirmi quando ne sarò uscito. Se me lo promettete e lo manterrete, tornerò a vedervi ancora domani, mentre il visir mio nonno comprerà di che poter fare un regalo al sultano d’Egitto.” “Mio piccolo signore” ripigliò Badr ad-Dìn Hassan “farò quanto voi mi comanderete.» Ciò detto, Agib e l’eunuco entrarono nella bottega. Badr ad-Dìn subito presentò loro una torta di fior di latte, non meno eccellente né meno delicata di quella loro regalata la prima volta. “Venite” gli disse Agib “sedete vicino a me, e mangiate con noi.” Badr ad-Dìn, essendosi seduto, voleva abbracciare Agib per l’allegrezza che provava di vedersi al suo fianco, ma costui lo respinse dicendo: “Trattenetevi, il vostro amore è troppo vivo. Contentatevi di guardarmi e divertirmi.” Badr ad-Dìn obbedì, e si mise a cantare una canzone improvvisata in lode di Agib. Egli non mangiò, né altro fece se non servire i suoi ospiti. Terminato che ebbero di mangiare, presentò loro da lavarsi, porgendo loro una tovaglia bianchissima per asciugarsi le mani. Preso poi un vaso di sorbetto ne riempì una gran tazza di porcellana, dove mise della neve. Presentando poi il vassoio al piccolo Agib: “Prendete” gli disse “questo sorbetto di rosa, è il più delicato che si possa trovare in tutta questa città.” Avendone bevuto Agib con piacere, Badr ad-Dìn Hassan ripigliò il vassoio e lo presentò all’eunuco il quale bevette a lunghi sorsi tutto il liquore sino all’ultima goccia. Agib e la sua guida satolli, finalmente, ringraziarono il pasticcere della colazione, e con sollecitudine si ritirarono, perché era già un po’ tardi.
Giunti sotto le tende di Shams ad-Dìn Mohammed, andarono subito a quella delle dame. La nonna di Agib fu molto contenta di rivederlo, e poiché aveva sempre presente il figliolo Badr ad-Dìn, non poté trattenere le lacrime abbracciando Agib. “Ah! figliolo mio” gli disse “la mia gioia sarebbe perfetta, se avessi il piacere di abbracciare vostro padre, come abbraccio voi.” Ella allora ponendosi a tavola per cenare, lo fece sedere a lei vicino, interrogandolo sopra il suo passeggio, presentandogli un pezzo di torta di fior di latte, come pure all’eunuco. Agib, appena ebbe assaggiato un bocconcino della torta di fior di latte finse di non trovarla di suo piacimento e la lasciò intiera, e Shahan, così si chiamava l’eunuco, fece lo stesso. La vedova di Nùr ad-Dìn Alì, accortasi con dispiacere del poco conto che suo nipote faceva della sua torta: “Come, o figliolo mio” gli disse “è possibile che voi sprezziate l’opera delle mie mani? Nessuno al mondo è capace di farne di così buone, all’infuori di vostro padre Badr ad-Dìn Hassan al quale ho insegnato la grande arte di farne delle simili.” “Ah! mia buona nonna” esclamò Agib “vi è un pasticcere in questa città che in questa grande arte vi supera, noi siamo stati or ora a mangiarne nella sua bottega una migliore di questa.” A queste parole la donna, guardando con occhio torvo l’eunuco: “Come, Shahan” disse con sdegno “vi si è commessa la custodia del mio nipotino per condurlo a mangiare nella bottega dei pasticceri come un plebeo?” “Signora” rispose l’eunuco “è ben vero che ci siamo trattenuti qualche tempo da un pasticcere, ma non abbiamo mangiato nella sua bottega.” “Perdonatemi” disse Agib “noi siamo entrati nella sua bottega e vi abbiamo mangiato una torta di fior di latte.” La dama, più sdegnata di prima contro l’eunuco, alzatasi da tavola precipitosamente, corse alla tenda di Shams ad-Dìn Mohammed, informandolo del delitto dell’eunuco in termini da irritare il visir contro il poveretto.
Shams ad-Dìn Mohammed, il quale naturalmente era collerico, non perdette un’occasione tanto bella per adirarsi. Si portò subito sotto la tenda di sua cognata, e disse all’eunuco: “Come, sciagurato, tu hai la temerità di abusare della confidenza che ho in te?” Ma Shahan negò il fatto, mentre il fanciullo ribadì: “Nonno, vi assicuro che l’uno e l’altro abbiamo così ben mangiato, da non aver bisogno di cenare. Il pasticcere ci ha pure regalato del sorbetto.” “Ebbene, iniquo schiavo” gridò il visir, rivoltandosi verso l’eunuco “dopo ciò non vuoi tu confessare di essere entrato dal pasticcere e di avervi mangiato?” Shahan ebbe la sfacciataggine di giurare che ciò non era vero. “Tu sei un mentitore” gli disse allora il visir “credo piuttosto a mio nipote, anziché a te. Tuttavia, se tu puoi mangiare tutta questa torta di fior di latte, sarò persuaso che dici la verità.” Shahan, pur essendo pieno fino alla gola, si sottopose a questo esperimento, e ne prese un pezzo, ma fu obbligato a ricacciarlo, perché gli si rivoltò lo stomaco. Eppure non la smise di mentire ancora, dicendo di aver mangiato troppo nel giorno precedente. Il visir, sdegnato di tutte le bugie dell’eunuco, lo fece coricare per terra, e ordinò che venisse bastonato. L’infelice prorompeva in grandi clamori subendo questo castigo, e confessò la verità. “È vero” esclamò “che abbiamo mangiato una torta di fior di latte da un pasticcere, cento volte migliore di questa che sta sopra la tavola.” La vedova di Nùr ad-Dìn Alì, credendo che Shahan lodasse la torta del pasticcere per farle dispetto e per mortificarla, gli disse: “Non posso credere che le torte di fior di latte di quel pasticcere, siano migliori delle mie, e perciò voglio accertarmene. Tu sai dove dimora, va’ da lui, e portami subito una torta di fior di latte.” Ciò detto fece dare del denaro all’eunuco per comprare la torta ed egli subito partì. Come fu giunto alla bottega di Badr ad-Dìn, gli disse: “Buon pasticcere, tenete questo denaro, e datemi una torta di fior di latte, volendo una delle nostre donne gustarne.” Ve ne erano allora delle calde, Badr ad-Dìn scelse la migliore e dandola all’eunuco: “Pigliate questa, ve la garantisco eccellente, e posso assicurarvi che non c’è nessuno al mondo capace di farne delle simili, all’infuori di mia madre, la quale non so se vive ancora.” Shahan ritornò con sollecitudine alle tende con la torta di fior di latte. Egli la presentò alla vedova, la quale la prese con gran premura e ne ruppe un pezzo per mangiarla, ma non appena l’ebbe avvicinato alla bocca, emise un grido e cadde svenuta. Shams ad-Dìn Mohammed, il quale era presente, restò estremamente meravigliato di questo accidente. Le spruzzò egli stesso dell’acqua sul viso, e si affrettò a soccorrerla. Non appena fu rinvenuta:
“Ohimè” esclamò “colui che ha fatto questa torta deve esser mio figlio Badr ad-Dìn.” Quando il visir ebbe udito le parole di sua cognata, ne sentì una gioia indicibile, ma considerando poi che simile allegrezza era senza fondamento, essendo false secondo tutte le apparenze le congetture della vedova, le disse: “Ma signora, perché avete voi questa opinione? Non può esservi un pasticcere al mondo, il quale sappia fare egualmente bene le torte di fior di latte come il vostro figliolo?” “Convengo” essa rispose “che forse vi siano pasticceri capaci di farne egualmente buone, ma siccome io le faccio in una maniera particolarissima, e che soltanto mio figlio sa questo segreto, deve essere assolutamente egli che ha fatto questa torta. Rallegriamoci, o fratello” soggiunse con trasporto “abbiamo finalmente ritrovato colui che cerchiamo e desideriamo da tanto tempo.” “Signora” replicò il visir “moderate la vostra impazienza, e facciamo venire qui il pasticcere, se questo è Badr ad-Dìn Hassan, lo riconoscerete molto bene voi e la mia figliola. Ma bisogna che vi nascondiate, perché se è lui, non voglio che il riconoscimento abbia luogo a Damasco.” Terminando queste parole, lasciò le dame nella loro tenda e tornò nella sua. Là fece venire cinquanta dei suoi uomini, e disse loro: “Prendete ognuno di voi un bastone, e seguite Shahan, il quale vi condurrà da un pasticcere di questa città. Quando vi sarete giunti rompete e fate in pezzi tutto ciò che ritroverete nella sua bottega, se egli vi chiede perché commettete questo disordine, domandategli solo se è lui che ha fatto la torta di fior di latte comprata nella sua bottega. Se vi risponde di sì, assicuratevi della sua persona, legandolo bene, e conducetemelo, ma abbiate tutta l’attenzione di non batterlo, né di fargli il minimo affronto. Andate, e non perdete tempo.” Il visir fu prontamente obbedito. Le sue genti armate di bastoni, e condotte dall’eunuco nero si portarono rapidamente alla casa di Badr ad-Dìn Hassan, dove ridussero in mille pezzi i piatti, le caldaie, i tegami, le tavole e gli altri mobili e utensili suoi inondando la sua bottega di sorbetto di latte, e di confetture. A tale spettacolo, Badr ad-Dìn Hassan, molto meravigliato disse loro con voce che muoveva a pietà: “Ehi, buone persone, perché mi trattate in tal maniera? Che ho io mai fatto?” “Non siete voi” gli dissero “che avete fatto la torta di fior di latte, venduta a questo eunuco?” “Sì, io stesso” rispose “e sfido chiunque a farne una migliore.” I servi, invece di rispondergli, continuarono a rompergli tutto, e lo stesso forno non fu risparmiato.
In questo mentre essendo accorsi allo strepito i vicini, e molto sorpresi di vedere cinquanta uomini armati commettere un simile disordine, ricercarono la causa di tanta violenza, e Badr ad-Dìn un’altra volta disse a quelli che la commettevano: “Ditemi di grazia, quale delitto posso aver commesso, per rompere e ridurre così in pezzi quanto si trova nella mia bottega?” “Non siete voi” quelli risposero “che avete fatto la torta di fior di latte venduta a quest’eunuco?” “Sì, sì, sono io quello” rispose “e sostengo che è buona, né merito l’ingiusto trattamento che mi fate.” I domestici del visir intanto si assicurarono della sua persona senza dargli retta, e dopo avergli levata per forza la tela del suo turbante, se ne servirono per legargli le mani dietro la schiena, levatolo poi per forza dalla sua bottega lo condussero con essi. La plebaglia là radunata, mossa a compassione di Badr ad-Dìn, pigliò il suo partito, e voleva opporsi al disegno delle genti di Shams ad-Dìn Mohammed, quando sopraggiunti diversi ufficiali del governatore della città là, sbandarono, favorendo il rapimento di Badr ad-Dìn, poiché Shams ad-Dìn Mohammed, andato dal governatore di Damasco, l’aveva informato dell’ordine dato da lui. Venne dunque Badr ad-Dìn trascinato, nonostante i suoi clamori e le sue lacrime, alle tende del visir. Inutilmente chiedeva per strada alle persone che lo conducevano, cosa mai si fosse ritrovato nella sua torta di fior di latte, ma nulla gli si rispondeva. Finalmente giunse sotto le tende, dove fu obbligato ad aspettare Shams ad-Dìn Mohammed. Appena tornato, il visir chiese notizie del pasticcere, facendoselo subito condurre innanzi. “Signore” gli disse Badr ad-Dìn con le lacrime agli occhi “fatemi la grazia di dirmi in che mai vi ho offeso?” “Ah! sciagurato” rispose il visir “non hai tu fatto la torta di fior di latte a me mandata?” “Confesso che sono stato io” gli disse Badr ad-Dìn “ma quale delitto ho in ciò commesso?” “Io ti castigherò come meriti” replicò Shams ad-Dìn Mohammed “e ti costerà la vita, per aver preparato una torta tanto cattiva.” “Ohimè” esclamò Badr ad-Dìn “che sento io mai? È un delitto degno di morte aver fatto una torta di fior di latte cattiva?” “Sì” disse il visir “né devi aspettare da me trattamento diverso.” Mentre in tal maniera entrambi si trattenevano, le dame stando nascoste osservavano con attenzione Badr ad-Dìn che non penarono a riconoscere, sebbene non lo avessero veduto da lungo tempo. La gioia che ne ebbero fu tale, che caddero svenute. Appena rinvenute, avrebbero voluto andare a gettarsi al collo di Badr ad-Dìn, ma la parola data al visir di non lasciarsi vedere, vinse sopra i moti più teneri dell’amore e della natura.
Avendo Shams ad-Dìn Mohammed stabilito di partire quella stessa notte, fece piegare le tende, e preparare i carri per mettersi in marcia. Riguardo a Badr ad-Dìn, comandò fosse posto in una cassa ben serrata e caricato sopra un cammello. Appena il tutto fu pronto per la partenza, il visir e le genti del suo seguito si posero in cammino, e si fermarono solo al calar della notte seguente. Fu levato allora Badr ad-Dìn Hassan dalla cassa per fargli pigliare nutrimento, ma si ebbe cura di tenerlo lontano da sua madre e da sua moglie, durante tutto il tempo del viaggio. Nel giungere al Cairo si accampò all’intorno della città per ordine del visir, alla cui presenza fu detto a un falegname che era stato fatto venire: “Va’ a cercare del legno, e fanne velocemente un palo.” “Eh, signore” disse Badr ad-Dìn “cosa pretendete fare di questo palo?” “Impiccarti” ripigliò il visir “e farti poi condurre per tutti i quartieri della città, affinché si veda nella tua persona un indegno pasticcere, il quale prepara torte di latte senza mettervi pepe.” A queste parole Badr ad-Dìn Hassan esclamò in una maniera tanto buffa, che Shams ad-Dìn Mohammed dovette fare gran forza a se stesso per non ridere. “O cielo, dunque per non aver posto pepe in una torta di fior di latte si pretende farmi soffrire una morte crudele quanto ignominiosa, si è dunque dovuto rompere e ridurre in pezzi nella mia bottega quanto vi si è ritrovato, imprigionarmi in una cassa e prepararmi un patibolo e tutto ciò perché non ho posto pepe in una torta di fior di latte? Oh stupore! Chi ha udito giammai parlare di una simile cosa? Sono queste azioni musulmane, di persone che fanno professione di probità, di giustizia, che praticano ogni specie di buone opere?” Ciò dicendo si struggeva in lacrime, poi, ricominciando i suoi lamenti: “No” ripigliava “nessuno mai è stato trattato né tanto ingiustamente né con egual rigore. È mai possibile che si possa togliere la vita a un uomper non aver posto pepe in una torta di fior di latte? Maledette siano le torte di fior di latte, come pure l’ora nella quale sono nato, e fosse piaciuto al cielo che fossi morto in quel momento!” L’afflitto Badr ad-Dìn non cessdi lamentarsi, e quando fu apprestato il patibolo e il chiodo per inchiodarvelo, proruppe in grandi grida a questo orrendo spettacolo. “Cielo, potete voi soffrire che io muoia di una morte infame dolorosa? E ciò per quale delitto? Non è già per aver rubato, né per aver assassinato, né per avere rinnegato la mia religione! Ma per non aver posto del pepe in una torta di latte.”
Essendo allora già la notte molto avanzata, il visir fece riporre Bad ad-Dìn nella cassa e gli disse: “Stattene là fino a domani.” Fu portata via la cassa, e ne fu caricato il cammello, che l’aveva portato da Damasco. Furono pure nel tempo stesso caricati di nuovo tutti gli altri cammelli, e il visir, risalito a cavallo, fece andare avanti cammello che portava suo nipote, ed entrò nella città accompagnato di tutto il suo equipaggio. Dopo aver passato molte strade, dove nessuno comparve, perché ognuno si era ritirato, andò al suo palazzo e fece scaricare la cassa con proibizione di aprirla, se non dopo un suo ordine. Nel mentre si scaricavano gli altri cammelli, si ritirò in segreto con la madre di Badr ad-Dìn Hassan e la sua figliola, e voltandosi quest’ultima: “Lodato sia Maometto” le disse “o mia figlia, di averci con tanta felicità fatto ritrovare vostro cugino, e vostro marito. Se vi ricordate pressappoco lo stato in cui stava la vostra camera la prima notte delle vostre nozze, andate e fatevi riporre il tutto come allora si trovava.” Dama di Bellezza andò a eseguire con gioia quanto le aveva comandato suo padre, il quale pure iniziò a disporre ogni cosa nella sala nella stessa maniera come stava quando Badr ad-Dìn Hassan vi si era ritrovato con il palafreniere gobbo del sultano di Egitto. Non fu dimenticato il trono né i candelieri con le candele accese.
Quando il tutto fu preparato nella sala, il visir entrò nella camera della sua figliola, dove pose il vestito di Badr ad-Dìn con la borsa dei dinàr, ciò eseguito, egli disse a Dama di Bellezza: “Andate, o figlia mia, a riposarvi nel letto. Come Badr ad-Dìn entrerànella camera, lamentatevi perché egli è rimasto fuori lungamente, ditegli che rimaneste molto meravigliata, destandovi, di non trovarlo. Stimolatelo poi a coricarsi, e domani mattina divertirete vostra suocera me, narrandoci quanto vi sarete detto questa notte.” Dopo ciò uscì dall’appartamento della figlia, lasciandola coricarsi in libertà. Fece uscire dalla sala tutti i domestici, e comandò loro di allontanarsi, all’infuori di due o tre, incaricandoli di togliere Badr ad-Dìn dalla cassa, e dopo averlo spogliato lasciandolo in semplice camicia e mutande, condurlo in tale stato nella sala, e abbandonarvelo solo, chiudendo la porta. Badr ad-Dìn Hassan, sebbene oppresso dal dolore si era addormentato così profondamente, che i domestici del visir lo levarono dalla cassa, prima che egli si svegliasse. Fu poi trasportato nella sala così rapidamente, da non avere il tempo di scorgere il luogo in cui si trovava. Rimasto solo nella sala, e guardandosi intorno, si accorse con stupore, che quella era la stessa sala in cui aveva visto il palafreniere gobbo. La sua sorpresa si accrebbe maggiormente, allorché essendosi accostato pian piano alla porta della camera, che trovò aperta, vi scorse dentro il suo vestito nel luogo stesso in cui si ricordava di averlo posto la notte delle sue nozze. “Ohimè” disse stropicciandosi gli occhi “dormo o veglio?” Dama di Bellezza che l’osservava, dopo essersi divertita del suo stupore, aprì all’improvviso le cortine del suo letto, e sporgendo fuori il capo: “Signore mio caro” gli disse con voce molto affettuosa “che fate voi alla porta? Venite a riposarvi. Siete stato fuori molto tempo. Sono rimasta molto sorpresa, risvegliandomi, di non trovarvi vicino a me.” Badr ad-Dìn Hassan si mutò di colore quando riconobbe che la dama che gli parlava era quella vezzosa creatura con cui si ricordava di aver dormito. Egli entrò nella camera, ma poiché era pieno delle idee di quanto gli era accaduto per dieci anni, invece di andarsene a letto si avvicinò alla cassa in cui erano le sue vesti e la borsa dei dinàr, e dopo averli con molta attenzione esaminati: “Per il gran Maometto!” esclamò “vedo cose incomprensibili.” La dama, che si compiaceva del suo imbarazzo, gli disse: “Una volta ancora, o signore, venite a riporvi nel letto, perché vi trattenete?” A queste parole egli si avvicinò a Dama di Bellezza. “Io vi supplico, o signora” le disse “di dirmi se è molto tempo che mi trovo vicino a voi?” “L’interrogazione mi sorprende” essa rispose “non vi siete voi levato da me poco tempo fa? Bisogna che abbiate lo spirito molto preoccupato.” “Signora” replicò Badr ad-Dìn “non l’ho certamente molto tranquillo. Mi ricordo, è vero, di essere stato a voi vicino, ma mi ricordo ancora di aver soggiornato dieci anni a Damasco. Se veramente ho dormito con voi questa notte, non posso esserne stato lontano molto tempo. Queste due cose sono fra loro opposte. Ditemi di grazia ciò che devo pensarne, se il mio matrimonio con voi è una illusione, o un sogno, come la mia lontananza?” “Sì, o signore” ripigliò Dama di Bellezza “voi avete sognato senza dubbio di essere stato a Damasco.” “Nulla dunque vi è di più singolare” esclamò Badr ad-Dìn prorompendo in uno scroscio di risa. “Io sono sicuro, signora, che questo sogno vi sembrerà molto piacevole. “Immaginatevi, se così vi aggrada, che mi sia trovato alla porta di Damasco in camicia e in mutande, come in questo momento mi ritrovo, che sia entrato nella città accompagnato dagli schiamazzi della plebaglia, che mi sia salvato nella casa di un pasticcere, il quale dopo avermi adottato, mi abbia insegnato la sua professione. Non ho fatto male a risvegliarmi, stavo per essere inchiodato a un palo.” “E per qual motivo” disse Dama di Bellezza fingendo meraviglia “volevano trattarvi tanto crudelmente? Forse perché avevate commesso qualche delitto enorme?” “Nulla di tutto questo” rispose Badr ad-Dìn “ciò accadeva per la cosa più bizzarra e più ridicola del mondo. Tutto il mio delitto consisteva di aver venduto una torta di fior di latte, nella quale non avevo messo il pepe.” “Ah! per questo?” disse Dama di Bellezza ridendo “bisogna confessare che si faceva un’orrenda ingiustizia.” “Oh! signora” replicò “ciò non è tutto, per questa maledetta torta di latte, nella quale mi si rimproverava di non aver messo il pepe, fu rotto e ridotto in pezzi quanto si trovava nella mia bottega, poi mi hanno legato con corde e rinchiuso in una cassa. Infine fu fatto venire un falegname, al quale fu comandato di fare un palo per appendermivi. Ma sia benedetta la sorte, tutto ciò non è stato che opera del sonno!” Badr ad-Dìn non passò tranquillamente la notte. Si svegliava di quando in quando, e interrogava se stesso, se dormiva o sognava. Diffidava della sua felicità, e cercando di assicurarsene, apriva le cortine e scorreva con lo sguardo la camera. “Io non mi inganno” egli diceva “questa è la stessa camera in cui sono entrato invece del gobbo, e ho dormito, con la bella dama a lui destinata.”
Il giorno che compariva, non aveva ancora dissipato la sua inquietudine, quando il visir suo zio bussò alla porta, ed entrò quasi nello stesso tempo per augurargli il buon giorno. Badr ad-Dìn Hassan restò estremamente sorpreso di vedere comparire un uomo che egli ben conosceva ma che più non aveva l’aria di quel giudice tremendo che aveva sentenziato la sua morte. “Ah! siete voi dunque quello che tanto indegnamente mi ha trattato e condannato a una morte, che ancora mi ispira orrore, per una torta di fior di latte, in cui non avevo messo il pepe?” Il visir si pose a ridere, e per levarlo di pena gli narrò come per l’intervento di un genio (giacché il racconto del gobbo gli aveva fatto sospettare l’accaduto) aveva ritrovato la casa sua e sposato la sua figliola in luogo del palafreniere del sultano, gli disse poi che mediante il foglio scritto di mano di Nùr ad-Dìn Alì aveva scoperto che egli era suo nipote, e finalmente gli raccontò, che in conseguenza di questa scoperta era partito dal Cairo, ed era andato fino a Bassora per cercarlo e sapere sue notizie. “Nipote mio caro” soggiunse egli abbracciandolo con amore “vi chiedo perdono di quanto vi ho fatto soffrire, dopo avervi riconosciuto. Ho voluto condurvi alla mia casa prima di farvi sapere la vostra felicità, la quale vi deve riuscire tanto più grata, in quanto sono state maggiori le pene da voi sofferte. Consolatevi di tutte le vostre afflizioni per l’allegrezza di vedervi restituire a persone, a voi carissime. Mentre vi vestite, vado ad avvisare vostra madre, la quale è impaziente di abbracciarvi, e vi condurrò pure vostro figlio, che avete veduto a Damasco, e per il quale avete sentito tanto amore, senza conoscerlo.”
Non vi sono parole sufficienti a esprimere l’allegrezza di Badr ad-Dìn quando vide sua madre, e suo figlio Agib. Queste tre persone non cessavano di abbracciarsi e di manifestare i trasporti che il sangue e l’amore più vivo possono ispirare. La madre disse le cose più penetranti del mondo a Badr ad-Dìn. Essa gli parlò del dolore che le aveva inflitto una così lunga lontananza, e delle lacrime versate. Il piccolo Agib, invece di fuggire, come a Damasco, gli abbracci di suo padre, li accettava, e Badr ad-Dìn Hassan, diviso fra due oggetti tanto degni del suo amore, non sapeva come manifestare loro tutto il suo affetto. Mentre queste cose avvenivano, il visir se n’era andato a palazzo a render conto al sultano dell’esito felice del suo viaggio. Il sultano restò stupefatto del racconto di questa meravigliosa storia e la fece scrivere, perché fosse premurosamente conservata negli archivi del regno. Appena Shams ad-Dìn Mohammed fu ritornato alla sua casa, avendo fatto preparare un superbo banchetto, si assise a tavola con la sua famiglia e tutti quelli di casa, e passò la giornata con grandi allegrezze.
Il visir Giàfar, avendo terminato in tale maniera la storia, disse al califfo Harùn ar-Rashìd: “Gran principe dei credenti, questo è quello che dovevo narrare alla maestà vostra.” Il califfo trovò questa storia tanto singolare, che accordò senza esitare la grazia allo schiavo Rihan e, per consolare il giovane del dolore di essersi egli stesso privato infelicemente di una moglie teneramente amata, questo principe lo maritò con una delle sue schiave, lo ricolmò di ricchezze e lo beneficò sino alla sua morte.
- Fiaberella