La Prezzemolina
C’era una volta,
una donnetta contadina, che aveva un po’ di terra che a malapena le forniva da vivere; un giorno l’affidò a un garzone, ma poi.. si sa, come spesso accade con le donne sole che trovano un uomo.. quella donnetta e il garzone si piacquero a vicenda, e, senza perder tanto tempo, si sposarono; passò pochissimo tempo ed ella rimase incinta.
Ma non era mai contenta, perché non trovava mai nulla di buono da mangiare, e non c’era verso di farle consumare altro che prezzemolo.
Prezzemolo, nell’orto, però, non ce n’era più da un pezzo, così, la gravida, che non voleva assolutamente mangiare altro, rimase a pancia vuota per tre giorni.
E in casa erano tutti disperati, finché, un giorno, passò di lì un merciaio, di quelli che vanno con il cestino a zonzo per le campagne a vendere ninnoli, spille e cotone alle massaie.
Nel capitare a casa della donna, e nel vedere quei due mezzi matti, disse: “Bhè, che vi è successo? Avete visto il diavolo?”
E il marito della contadina: “Eh, no. E’ che mia moglie, poveretta, è in stato interessante, e ha voglia di mangiare solo prezzemolo, ma nell’orto non ce n’è più e non se ne trova neanche nei dintorni: quindi son tre giorni che sta a bocca asciutta.”
Disse il mercante: “Vi faccio vedere io un posto dove il prezzemolo cresce abbondantemente. A cinque o sei miglia da qui un signore ha un orto tutto recintato, con dentro ogni ben di Dio, e con tre metri di prezzemolo fitto e rigoglioso, ch’è proprio una meraviglia. Andateci subito, che ve ne riempirete le tasche.”
Il garzone non si fece pregare due volte, e il mattino dopo, molto presto, prese un sacchetto e una falce, e se ne andò a cercare il famoso orto, e, cammina, cammina, ci arrivò.
Gli ci volle un bel po’ per arrampicarsi su quel muro alto, ma alla fine, ci riuscì ed entrò.
Nell’orto non c’era anima viva, così, poté agire indisturbato: riempì il sacchetto di prezzemolo, e via, fuggì di corsa a portarlo dalla moglie, che, figuratevi, quella ghiottona, se ne fece una scorpacciata per un’intera settimana.
Ora, dovete sapere che quell’orto era di proprietà dell’Orco, e quando s’alzò dal letto e s’accorse del furto del prezzemolo, andò su tutte le furie e cominciò a gridare a squarcia gola: “Scendi giù, Catera! Vieni a vedere, m’hanno rubato il prezzemolo. Ladracci infami! Se n’avevano bisogno, perché non me l’hanno chiesto? Rubarmelo così è da malandrini. Se vi acchiappo, se vi acchiappo! Ah, ma dovrete pur tornare!”
Così, nella convinzione di riuscire a sorprendere i ladri, eresse un po’ in disparte un capanno ricoperto da frasche verdi, e là montò di guardia al prezzemolo.
Nel giro di otto giorni, la donnetta incinta aveva di nuovo fame, così, il garzone, con il sacchettino e la felce tornò di nascosto all’orto dell’Orco per fare di nuovo provvista, ma, appena ebbe cominciato a tagliare, ecco che saltò fuori l’Orco che lo agguantò per il collo: “T’ho acchiappato, malandrino!” esclamò con la sua vociaccia da metter paura a un sacco di Madonne, “e ora non mi scampi, questa bravata me la paghi con la vita.”
E così dicendo, lo trascina in casa e lo sbatte per terra con l’intenzione di ammazzarlo, e gridava: “Catera, Catera, corri, che c’è da mangiare!”
Il garzone, temendo che fosse giunta la sua ora, si sentì da mancare dal terrore, ma poi tornò in sé, s’alzò sulle ginocchia e si mise a confessare all’Orco com’era andata; e seppe raccontarla così bene, in maniera così commovente, che l’Orco, mosso a pietà, disse: “Ti perdono, via! Ma a un patto.”
“Dite pure,” rispose il garzone sollevato: “vi prometto tutto quello che volete, pur di ritornare a casa mia!”
E l’Orco: “Allora, ecco il patto: prendi pure tutto il prezzemolo del mio orto, quanto ce ne vuole per nutrire tua moglie. Lei con il prezzemolo fresco partorirà una bella creatura fresca fresca: e quando sarà nata, portamene metà, che me lo mangio a colazione.”
“Sarà fatto, signore!” rispose quello scellerato, senza pensarci un attimo, e poi, riempito il prezzemolo, più morto che vivo, tornò a casa, reggendosi a mala pena sulle gambe.
La moglie, nel vederlo così ridotto, s’insospettì moltissimo, e volle sapere che cosa diamine gli era successo, e lui le riferì tutte le disgrazie che gli erano capitate, al che la donna esclamò: “Sciagurato, cos’hai fatto? Cos’hai promesso? Dunque, la creatura, dovremo squartarla in due pezzi?”
E lui: “Taci, disgraziata! Volevo vedere, io, se ci fossi stata tu al mio posto, se t’avessero voluta schiaffar dentro a una caldaia per mangiarti lessa, che cosa avresti fatto! Facile, parlare, quando non ci si trova invischiati in tali situazioni. Ma in quei momenti, non vedi altra soluzione. Vabbè, dai! Forse ce la caveremo, c’è tempo per trovare un rimedio.”
La donna a quel discorso si tranquillizzò, perché tanto non c’era niente che potesse fare.
Allora decidono di tirare avanti senza agitarsi, e tutti i giorni il garzone andava dall’Orco a cogliere il prezzemolo fresco, e la sua donna, ingrassava a vista d’occhio, diventando vispa e forzuta. “Eh! Il tempo è galantuomo!” dicevano quei due, con la speranza di riuscire ad aggiustare le cose.
Venne il giorno del parto e, la donna partorì una bimbetta cicciottella, dai capelli biondi, che era proprio una bellezza a vederla, con quegli occhietti grandi e lucenti.
D’un tratto, bussarono alla porta. “Chi è?” chiesero, e: “Aprite, che sono l’Orco. Non vi sarete dimenticati del patto?”
Figuratevi lo sgomento di quei due poveri genitori disgraziati!
Ma l’Orco fu irremovibile.
Tira fuori una sega affilata, poi agguanta la bambina per un piede, passa l’altro alla sua donna e poi alza il braccio col ferro per squartare nel mezzo la creatura.
A quella vista la madre non seppe resistere: saltò giù dal letto e si buttò in ginocchio, e cominciò a urlare e a piangere come un’anima dannata: “Non me la squartate, non me la squartate! Piuttosto pigliatevela tutta, che almeno resterà intera.”
Disse allora l’Orco: “Sta bene, accetto; la prendo tutta per me, ma non la posso prender subito. La lascio qui perché la tiriate su voi, e vi pagherò il mantenimento. Quando sarà cresciuta, me la porterò via, e ci farò un pasto luculliano. Dunque, siamo intesi. Arrivederci.”
L’Orco e l’orchessa se ne tornarono a casa e mantennero la parola, perché tutti i mesi mandavano ai genitori della bambina un bel po’ di quattrini, vestiti, e cibo di prima qualità.
Ma quando la bambina ebbe cinque anni, l’Orco venne a prenderla e fu tutto inutile, e infatti, se la portò via.
Quando fu a casa sua, la rinchiuse in una stanza della torre, dove non c’erano scale per arrivarci, e poi disse alla Catera: “Custodiscila, che non le manchi nulla, e bada che nessuno la veda e non possa scappare quando io sto fuori casa.”
E per poterla chiamare, le diede nome Prezzemolina.
Dunque, Prezzemolina, rinchiusa lassù su quell’alta torre, cresceva sempre più bella e siccome la sua guardiana era la Catera, la bambina finì per chiamarla mamma.
E quando l’orchessa voleva salire su nella stanzina per tenerle compagnia, chiamava dal fondo: “Prezzemolina, Prezzemolina! Butta giù le trecce e tiraci sù tua madre!”
Così, Prezzemolina faceva ciondolare le lunghe trecce dalla finestra e la tirava sulla cima.
Un giorno la Catera le dice: “Pettinami, Prezzemolina.”
Subito Prezzemolina prese un pettine e si mise a sfregare i capelli alla Catera.
“Che ci trovi?”
“Bhè, guardate qua: un sacco di pidocchi.”
“Brava, Prezzemolina! Sai che devi fare?” dice la Catera, “piglia ‘sti pidocchi e sbattili dentro a un tubo di canna; ti potrebbero servire, un giorno, perché soffiandoci dentro, loro si spargono in terra e lì ci cresce subito una gran siepe di spine.”
E la Prezzemolina fece come voleva la sua mamma.
Un’altra volta la Catera urla dal pian terreno della torre: “Prezzemolina, Prezzemolina! Butta giù le trecce e tiraci sù tua madre.”
E quando l’ebbe tirata su, la Catera le disse: “Ma se io dovessi assentarmi per un po’, saresti capace di farti da mangiare da sola?”
“Io, no.” rispose Prezzemolina, “e poi, dove sta la roba mangiare e la legna da ardere?”
Disse la Catera: “A tutto c’è rimedio. Prendi: ti dò questa bacchetta fatata e chiedi pure tutto ciò che vuoi, che sarai accontentata.”
Poi s’accomiatò, e andò via a fare i suoi affari.
Una mattina, tutto a un tratto, la Prezzemolina sentì che la chiamavano dal fondo della torre: “Prezzemolina, Prezzemolina! Butta giù le trecce e tira su tua madre.”
Le pensò che fosse la Catera, ma quando ebbe tirato su le trecce, vide che invece dell’orchessa, si trattava di un bel giovanotto, figlio di un Re, e.. Voilà!
S’innamorò all’istante, e trascorsero insieme la notte.
Il giorno dopo, riecco tornare la Catera: “Prezzemolina, Prezzemolina! Butta giù le trecce e tira su tua madre.”
Figuratevi, che scoramento, per quei due poveri giovani innamorati!
Come potevano fare?
Perché se la Catera avesse trovato il principe nella torre, solo Dio sa cosa sarebbe successo.
“Niente paura”, disse Prezzemolina, “ho io il rimedio,” e, presa la bacchetta magica, trasformò il principe in una fascina di legname; poi calò le trecce e tirò su l’orchessa.
La Catera, insospettita, nel veder quella fascina, disse: “E questa? Da dove è spuntata?”
“Serviva a me, per cucinare,” rispose Prezzemolina, “non vi ricordate che mi avete dato la bacchetta per supplire ai miei bisogni quando siete partita?”
E la Catera: “Si, si, hai raigione, e brava la mia bambina. Bene, fai pure le tue cose, che io devo star via qualche altro giorno. Addio.”
E se ne ritorna giù per farsi i suoi affari.
Dopo tre o quattro mattine, riecco la Catera: “Prezzemolina, Prezzemolina, butta giù le trecce e tira sù tua madre.”
Ma Prezzemolina, prima di farla salire, trasformò in porcellino il figliolo del Re.
Disse allora la Catera: “Oh, che bel porcellino! Chi te lo ha dato?”
“La vostra bacchetta,” rispose la fanciulla, “non vi ricordate più? Io lo tengo qui perché mi faccia compagnia mentre sono qui da sola.”
E la Catera: “Brava, bambina mia! Comportati sempre così, sai? Ma bisogna ch’io me ne vada, perché ho ancora un po’ di faccende da sbrigare. Addio.”
E se ne andò.
Poi Prezzemolina fece tornare normale il porcellino e insieme studiarono un piano di fuga.
Ma Prezzemolina aveva paura che gli arnesi della camera, che erano fatati, potessero fare la spia, e così, decise di ammansirli.
Subito disse alla bacchetta: “Voglio una bella caldaia piena di maccheroni.”
E quando i maccheroni apparsero dal nulla, Prezzemolina li divise in varie porzioni, e ne diede un po’ al letto, alle seggiole, allo specchio, insomma a tutti.
Ma della cassetta della spazzatura si scordò.
Poi, radunate insieme le loro cose, Prezzemolina e il principe si calarono giù dalla finestra e via, a gambe levate, attraverso i campi.
Ma torniamo alla Catera, la quale, nel frattempo, fece ritorno con l’Orco, e quando fu a casa, urlò come al solito: “Prezzemolina, Prezzemolina! Butta giù le trecce e tira sù tua madre.”
Rispose allora il letto: “Non posso, sono a letto.”
Disse la Catera: “Bhè, che hai, oggi, da esser così pigra? Spicciati, dai!”
Rispose la seggiola: “Non posso, son seduta sulla seggiola a infilarmi le calze.”
Strilla stizzita la Catera: “Falla finita e spicciati; non mi far aspettare.”
Risponde lo specchio: “Mi guardo allo specchio per ravviarmi le trecce.”
Insomma, uno a uno, tutti gli oggetti e i mobili della stanzina trovarono una scusa per non smascherare Prezzemolina che era fuggita via col suo innamorato; soltanto la cassetta della spazzatura cominciò a sbraitare: “Non è vero, non è vero! Prezzemolina non c’è più! E’ scappata per i campi con il suo bello.”
A questo discorso, figuratevi come rimasero l’Orco e l’orchessa! “Corri, corri, uomo mio! Con le tue gambacce li riprenderai in due salti. Birboni, me l’hanno proprio fatta!”
E mentre l’Orco correva dietro a quei due sciagurati, la cassetta della spazzatura continuava a dire: “Povera padrona! Avete visto la fascina? Avete visto il maialino? Era lui, il suo amante, e voi non lo avete riconosciuto. A tutti ha dato i maccheroni per farsi coprire, mentre a me non ha dato niente; ma io le bugie non ve le dico”.
E la Catera, a sentirsi raccontare com’era scappata Prezzemolina, si strappava tutti i ricci dall’acconciatura a cipolla, e non riusciva a calmarsi.
Frattanto l’Orco aveva corso tanto, che riuscì a vedere da lontano Prezzemolina e il fidanzato, e si dava un gran daffare per riprenderli.
Prezzemolina disse: “Giannino, ho i brividi sulla schiena.”
“Mettiti lo scialle” disse lui.
E Prezzemolina: “Oddio, sento dei passi, è sicuramente mio padre che ci insegue. Poveri noi, se ci prende! Ma ora lo sistemo io.”
Così dicendo, tira fuori la il tubo con i pidocchi e li soffia verso l’Orco, sicché, un momento dopo, ecco che nasce un’enorme siepe, spinosa, alta, e larga a dismisura, che sembrava un bosco di prugni selvatici; e quando l’Orco ci arrivò sotto, non vide più niente all’orizzante e non poté oltrepassare, così, dovette tornarsene a casa.
Allora l’orchessa vociò: “Oh, allora, li hai ripresi?”
E l’Orco: “Macché, quando fui li per acchiapparli tutti e due, mi son spariti, perché mi si è parato davanti un specie di bosco, che m’ha tappato la strada, e non c’era modo di andar oltre.”
Allora esclama la Catera: “Me sciagurata! Son stata proprio io a insegnar ‘ste malizie alla Prezzemolina. Son stati i miei pidocchi della canna. Corri, corri, uomo! Tu vai sempre più veloce di loro.”
E l’Orco corse via. E dopo un bel pezzo, ecco che avvista Prezzemolina con il suo fidanzato, mentre camminavano.
Disse Prezzemolina: “Giannino, sento freddo ai reni.”
“Copriti meglio” disse lui. “Oddio, mio padre! L’Orco, ci sta correndo dietro,” rispose Prezzemolina, “ma ora ci penso io.”
E con la bacchetta fatata, si tramutò in chiesa, e il principe lo trasformò in prete che va in chiesa a dire messa; e poi, fece apparire un pastorello che pascolava le pecore sul prato.
In quel mentre, arrivò di corsa l’Orco, a domandare al ragazzino: “Ehi, tu, bambino! Hai mica visto due che stavano insieme, un giovanotto e una ragazza?”
E pastore rispose: “No, signor mio, tra poco inizia la messa e non ho tempo da perdere. Se volete assistere anche voi, entrate in chiesa.”
Ma l’Orco insistette: “Si, ma hai visto passare un ragazzo e una ragazza insieme, a braccetto?”
E il pastorello: “Avete sentito? E’ suonata la campana, ecco il prete che sale sull’altare; se volete venire anche voi in chiesa, sbrigatevi. Io ci vado e addio.”
L’Orco, che non ci capì nulla, pensò che fosse meglio tornarsene a casa.
In fondo, non era un tipo malizioso, lui.
Quando la Catera vide il marito tornare da solo, volle sapere che cos’altro fosse successo: egli le raccontò del ragazzino, delle pecore, della chiesa, e del prete, e lei, tutta imbizzarrita, strillò: “Mammalucco che non sei altro! Non te ne sei reso conto, che la chiesa era Prezzemolina e il prete, il suo moroso? Ella ha fatto la magia con la mia bachetta, che come una fessa io le regalai. Rimettiti a correre, presto! Corri, ripigliali tutti e due, e non farti più mettere nel sacco!”
A quelle parole, l’Orco si rimise in corsa, una corsa sfrenata per riacchiappare Prezzemolina, e dopo aver camminato miglia e miglia la riavvistò non lontano, camminare con il suo bello per la strada.
Riecco Prezzemolina dire: “Mamma mia, che brivido alla schiena! Dev’essere per forza l’Orco come al solito! Poveri noi se ci acciuffa. Presto, presto, nascondiamoci.”
In quel mentre, prese la bacchetta fatata e fece comparire un lago: tutti e due si tuffarono, e in questo modo Prezzemolina diventò un cavedano, e il principe, un bel luccio, e tutti e due si misero a nuotare nell’acqua a più non posso.
Poco dopo, l’Orco raggiunse le sponde del lago, e disse: “Stavolta non mi sfuggite. Vi ho riconosciuto!” e per poterli pescare con le sue manacce nude, si buttò anch’egli nel lago.
Ma fu tutto inutile: se afferrava il luccio, questo gli sgusciava tra le dita, e lo stesso con il cavedano.
Come si sa, i pesci sono viscidi, e scivolano come niente dalle mani.
Allora, l’Orco, imbestialito, urlò ai due pesci: “Che siate maledetti. Prezzemolina, t’avevo allevata come una figlia, perciò ti maledico per prima, e sappi che lui, il tuo grande amore,
«A un’osteria ti lascerà,
e quando sua madre lo bacerà
di te si scorderà.» “
Detto questo, se ne andò senza voltarsi più indietro.
Prezzemolina e il figlio del re riemersero dalle acque, riassumendo la loro forma umana, e quando mancarono solo cinque miglia alla città reale, il principe disse: “Senti, Prezzemolina! Io proprio non posso presentarti a mio padre in queste condizioni. Bisogna che prima, io faccia ritorno al palazzo, e preannunci come si deve il tuo arrivo, e poi, potrò venirti a prendere con la carrozza, scortato dalle mie guardie, e ti potrò far vestire come si conviene alla sposa di un principe. Quindi, facciamo così: ora io ti lascio in questo albergo, e fra tre giorni al massimo sarò di ritorno con la scorta, come ti ho detto.”
E Prezzemolina rispose: “Disponete pure a vostro piacimento, farò come desiderate, ma ricordatevi di non accettare mai un solo bacio dalla vostra mamma, perché l’Orco, come sapete, ci ha scagliata addosso quella brutta maledizione.”
Ma il principe la rassicurò, dicendo: “Non temere, Prezzemolina, ci starò attento.”
E dopo averla raccomandata all’oste, il figlio del re partì per la sua terra.
Alla corte, quando Giannino rientrò a palazzo, si scatenò una festa che fece una gran chiasso, per onorare il ritorno del principe.
“Ben tornato, ben tornato”, acclamò la folla, infatti, Giannino mancava da casa da tanti anni, che non si sapeva più che fine avesse fatto, e se fosse vivo o morto.
Tutti stavano in pena, sopratutto il suo babbo e la sua mamma, e mentre egli saliva le scale del palazzo, la folla ragionava così.
Sul pianerottolo gli vennero incontro il Re e la Regina con le lacrime agli occhi: ma egli non si lasciò in nessun modo baciare da sua madre, ed ella si disperò, perché non si capacitava che il suo figliolo fosse tanto senza cuore.
Allora, per rabbonirla, egli le disse che aveva una buona ragione per comportarsi così, e le chiese di perdonarlo, poiché a suo tempo si sarebbe lasciato baciare a suo piacimento.
Insomma, finiti i complimenti, andarono tutti a cena, e mentre mangiavano, Giannino raccontò tutto quello che gli era capitato, e che aveva trovato una bella sposa, e comunicò ai genitori che di lì a tre giorni si sarebbe recato con carrozza e cavalli all’osteria, per riprenderla.
A fine pasto, quando fu tardi, i servitori lo scortarono in camera sua a dormire.
Appena spuntò il sole, il mattino dopo, la Regina, che non aveva potuto chiudere occhio tutta la notte al pensiero che il suo figliolo non si era fatto baciare da lei, sgusciò fuori dal letto e s’introdusse nella camera di Giannino, il quale dormiva ancora come un ghiro; e, senza nemmeno svegliarlo, gli saltò al collo, e lo baciò.
A tutto quel tramestìo, Giannino si ridestò, vide sua madre e la baciò a sua volta, e intanto, della sua Prezzemolina si era bell’e scordato.
Passarono i tre giorni, poi, passarono tre mesi, senza ch’egli si ricordasse mai delle promesse fatte alla sua povera fidanzata abbandonata, che lo aspettava all’osteria.
Nel frattempo, la Regina pensò di trovargli una moglie, e fu scelta per Giannino una figlia di Re; e in breve tempo, si diede il via ai preparativi delle nozze, e furono divulgati i bandi in tutti i villaggi del Regno.
Torniamo ora a Prezzemolina, che, abbandonata sola soletta all’osteria, si struggeva dal dolore.
Poveretta, dentro di sé pensava: ‘ Sicuramente Giannino s’è lasciato baciare dalla mamma, e adesso si è dimenticato di me. E ora come farò? ‘
Quanto pianse, povera derelitta!
Quando poi venne a sapere la notizia delle imminenti nozze di Giannino con la principessa, le tornò in mente la bacchetta fatata, e fece apparire due bei piccioni, un maschio e una femmina, che sapevano parlare ambedue come gli esseri umani, e li mandò alla camera da letto di Giovannino, per scoprire cosa succedeva.
Dunque, i due piccioni s’appostarono sul davanzale, e inscenarono la commedia, con il maschio che faceva finta di non voler dar retta alla femmina, e quella gli diceva: “Non ti ricordi, quando volasti sulla torre dov’ero rinchiusa, e ti mettesti nel mio nido?”
E il maschio: “Sì, sì, ora mi ricordo.”
E la femmina di nuovo: “E di quei giorni in cui ti tramutai in una fascina di legno, poi in porcellino, perché la mia mamma non s’accorgesse di te, e di quando facemmo i maccheroni e li demmo a tutti, tranne che alla cassetta della spazzatura, e che poi, scappammo insieme? Non ti ricordi più?”
E il maschio: “E’ vero, è vero, ora ricordo.”
E la femmina: “E ti sei scordato di quando l’Orco ci corse dietro per tre volte? Io dapprima feci comparire una siepe di spine; poi ci tramutammo in chiesa, con te dentro a recitar la messa, e il pastorello lì sul prato; infine, quando diventammo due bei pesci in mezzo a un lago, con l’Orco che alla fine ci maledì?”
E il maschio: “Oh, si. E mi tornano in mente molte cose.”
E la femmina: “E l’Orco disse a me:
«A un’osteria ti lascerà,
E quando sua madre lo bacerà,
Di te si scorderà». “
Cosa che accadde davvero: tu mi lasciasi all’osteria, con la promessa di tornare a prendermi tre giorni dopo, non ti ricordi, sposo mio? Quindi, è successo davvero, che la tua mamma ti ha baciato?”
E nel sentire i ragionamenti dei due piccioni, il povero principe si spremette le meningi e si mise a riflettere sulla sua vita passata, e così, finì per ricordarsi di Prezzemolina e di tutto il resto; finalmente, rammentò ch’ella lo attendeva da tutto quel tempo all’osteria.
Infuriato, saltò giù dal letto, suonò i campanelli e cominciò a urlare, e ad acclamare a gran voce i genitori, i quali, al sentire tutta quella baraonda, accorsero a vedere cosa mai stesse accadendo.
E Giannino raccontò dei discorsi che aveva sentito fare ai piccioni sul davanzale della finestra, e spiegò che gli avevano fatto ricordare della sua povera promessa sposa Prezzemolina, abbandonata all’osteria.
E tutto questo, concluse, era accaduto per via dei baci furtivi della mamma, e della maledizione scagliata dall’Orco.
E, senza altro indugio, attaccarono i cavalli alla carrozza, e con tutta la corte si affrettò di gran carriera a tornare da Prezzemolina.
La portarono in trionfo a palazzo, dove furono celebrate le nozze con grande fasto.
Il re ordinò un gran banchetto, con musica e balli, al quale tutto il Regno prese parte.
E fu così che terminarono le pene di Prezzemolina, la quale, visse a lungo con il suo sposo, felice e contenta.
- Fiaberella