La ragazza ghiotta

C’era una volta,

una donna molto povera che di giorno usciva per andare a lavorare e che aveva una figlia, la quale era una sfaticata e buona a nulla che non aveva mai voglia di fare niente, che era pure ingorda e che pensava solo ad ingozzarsi, fregandosene totalmente delle difficoltà incontrate da sua madre.

Un giorno la donna, prima di andare a lavorare, lasciò alla ragazza alcuni fagioli da stufare per cena insieme ad un po’ di cotiche di prosciutto.

Quando finalmente la pietanza fu pronta, la versò nel piatto e se la pappò tutta quanta, poi, prese le suole di un paio di scarpe vecchie e sudice, le tagliò a fette e le mise nel tegame al posto del mangiare, e le cucinò per sua madre.

Quando la poveretta rientrò a casa, non solo vide che mancavano le cotiche, ma persino i fagioli si erano rovinati, avendo acquistato il sapore decisamente disgustoso di scarpone stufato, e così, dovette rimanere a bocca asciutta.

A quel punto era decisa a dare, una volta per tutte, una bella lezione alla figlia, così, afferrò la ragazza, la strascinò fuori della porta, prese una scopa, e gliele suonò di santa ragione.

E mentre stava così intenta a svolgere la punizione corporale, ecco passare di lì un mercante di campagna, che disse: «Ehi! Perché mai meni tanto forte quella povera ragazza?»

«Perché non vuole mai smetterla di lavorare. Sai, è così ligia al dovere che lavora come una schiava anche la domenica e quando è festa, come se fosse un giorno feriale» rispose la madre, che si vergognava a confessare di avere una figlia tanto bestia.

«Bhè, questa è la prima volta in vita mia che vedo una madre picchiare una figlia perché lavora troppo; di solito si lamentano del contrario. Vuoi farmi un piacere? Dammela in sposa: la vorrei proprio, una moglie come lei.»

«Non se ne parla neanche!» Replicò la madre, di modo da far aumentare il valore della figlia agli occhi del mercante, «in casa mi fa tutto lei; come farei io, poi?»

«Facciamo così,» rispose l’uomo, «ti darò qualcosa in cambio della manodopera di tua figlia» disse, «ma essendo da tanto tempo che vado cercando una moglie di così alto pregio, non ho alcuna intenzione di lasciarmela scappare.»

«Ma nemmeno io voglio perdere una figlia tanto meritevole», insistette la donna.

«E se io ti dicessi che intendo pagartela cinquecento scudi?»

«Guarda, se te la do, non sarà certo per cinquecento scudi» rispose quella, «ma è perché mi sembri un marito adatto, e perché dimostri di apprezzarla davvero; tuttavia, se proprio devo dirla tutta, mi pare che quella non sia una cifra sufficiente a campare una povera vedova sola.»

«Oh bhè, ci metteremo d’accordo in seguito. Facciamo così: io adesso me ne vado alla fiera; tu fammi trovare la ragazza pronta, che io me la porto via.»

E così fecero: al ritorno del mercante, la ragazza se ne andò via con lui.

Appena giunto a casa, ecco che si presenta la madre di lui per sapere com’erano andati gli affari durante la fiera, e il mercante disse: «Abbastanza bene; tuttavia, non è lì che ho trovato il mio tesoro: me la sono portata a casa per sposarmela. Sai, è una gran sgobbona, tanto che non la smette mai di lavorare, nemmeno la domenica.»

«Ah si? Non ne ha davvero l’aria» osservò sua madre, asciutta, «ma se va bene a te, va bene anche a me.»

Tutto andò abbastanza bene durante la prima settimana, poiché nessuno si aspettava che dovesse fare un granché inizialmente, ma, in seguito, il marito le disse che doveva partire per recarsi a un’altra fiera, questa volta, piuttosto lontana da casa, e pertanto, si sarebbe assentato per circa tre settimane.

Prima di andare condusse la moglie in un magazzino e le disse: «Qui tengo provviste di ogni genere, e potrai rifornirti a tuo piacimento di cibo e bevande; inoltre, c’è una gran quantità di canapa, così potrai divertirti a tessere e a filare, se proprio non dovessero bastarti i mestieri di casa per tenerti occupata.»

Detto questo, le assegnò un certo numero di stanze a suo uso personale oltre al magazzino, in modo da evitare battibecchi con la suocera durante la sua assenza, conoscendo sua madre, e ben sapendo quanto fosse gelosa; salutò la moglie e partì.

Quando fu rimasta sola, la pigrona evitò attentamente tutti i compiti che non fossero di suo gradimento, facendo solo quello che le piaceva di più, ossia, cucinare e pappare, e nient’altro; in quanto alla canapa, non mosse un dito, e neppure in casa si diede da fare: non puliva, e a mettere in ordine, nemmeno a parlarne.

Passate che furono già due settimane da quando il marito era via, ecco affacciarsi la suocera per dare un’occhiata alla nuora e alla casa, e quando vide la canapa intatta e la casa in disordine, disse: «Ah, è così che te la passi mentre tuo marito è lontano?»

«Voi pensate a voi che io penso a me!» rispose sgarbata, sicché la suocera se ne andò via tutta offesa.

Però era vero anche che in capo a soli otto giorni il mercante sarebbe rientrato, e certamente si sarebbe aspettato di trovare svolto qualche compito, così, la moglie prese a darsi da fare con la canapa, cercando in qualche modo di filarla, ma non avendo la minima idea di come fare, ne uscì fuori una scenetta inimmaginabilmente assurda.

Mentre stava seduta sulle scale di casa tutta presa in quella maniera goffa e buffa, ecco passare di lì tre fate minorate: una era storpia, l’altra era strabica, mentre l’ultima aveva il capo tutto storto e da una parte, a causa di uno osso di pesce conficcato nella gola.

Le tre fate la chiamarono per chiederle cosa stesse combinando, e nel sentire la parola “filare”, la guercia scoppiò a ridere tanto che l’occhio strabico le schizzò tra le orbite, fino a tornare al posto giusto; quella con la testa storta cominciò a ridere fragorosamente, e a forza di sghignazzare l’osso le si smosse dalla gola e la testa si raddrizzò d’un colpo.

Infine, la storpia, nel sentire le altre due ridere così, cominciò a correre per andare a vedere cosa le facesse ridere tanto, sicché finalmente non fu più storpia.

Al che, le tre fate dissero: «Dal momento che siamo guarite grazie a lei, è giusto che adesso facciamo noi qualcosa per restituirle il favore.»

Entrarono, presero la canapa e cominciarono a stenderla e a tesserla, e filarono in sei giorni quel che un altro essere umano qualsiasi avrebbe potuto fare in vent’anni.

In più, ripulirono e riordinarono tutta la casa, che alla fine brillava e luccicava tutta da cima a fondo.

Infine, diedero alla moglie del mercante un enorme sacco di noci, dicendo: «Tra mezz’ora tuo marito sarà di ritorno. Tu fatti trovare a letto, e mettiti questo sacco sotto la schiena; appena entra, tu digli che hai lavorato così duramente da avere tutte le giunture incrinate: scuoti il sacco e i gusci faranno cric-crac, così egli penserà che sarà il rumore delle tue ossa che scricchiolano, e ti dirà che non dovrai mai più lavorare.»

Quando il marito fu a casa, ecco che ricomparve sua madre a dirgli: «Te l’avevo detto che mi sembrava una gran lazzarona, il tuo tesoro…Appena rientrerai lo vedrai tu stesso che bel disordine c’è in casa tua. E in quanto alla canapa, avresti fatto meglio a chiudere la porta a chiave, perché sicuramente avrà combinato qualche disastro.»

Il marito, però, entrò in casa e trovò tutto lindo e in perfetto ordine, e in più, vide che la canapa era stata tutta accuratamente tessuta e filata a puntino, tanta quanta se ne sarebbe potuta filare in vent’anni di lavoro.

Tuttavia, la moglie la trovò coricata nel letto; s’avvicinò al letto, ed ella cominciò a scuotere per bene il sacco con le noci e subito si sentì un gran cric-crac!

«Hai lavorato sodo, moglie mia!» Disse il marito

«Oh sì», rispose la moglie, «ma mi si sono incrinate tutte le giunture: senti come scricchiolano?»

E così dicendo tornò a scuotere il sacco, e di nuovo si sentì un gran cric-crac! «Temo che mi ci vorrà un po’ per ristabilirmi.»

«Oh, cara, cara!» Disse il marito, «se solo penso a quale tesoro di moglie giace ai miei piedi a causa di cotanta diligenza!»

E a sua madre disse poi: «Mai che una suocera spenda una buona parola per sua nuora! Quel che mi raccontasti è pure invenzione.»

E alla moglie disse: «Ti proibisco di alzare più un dito finché campi.»

E così, da quel momento in poi, la pigrona non dovette più lavorare, e poté mangiare e bere e divertirsi dal mattino alla sera.

- Fiaberella
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