Storia di Sinbad il marinaio-Parte IV

Sappiate, fratelli miei, che dopo qualche tempo che vivevo in pace e sereno godendomi l’agiatezza fui visitato da una compagnia di mercanti, i quali s’intrattennero con me parlando di viaggi e di traffici. Allora il vecchio demone ch’era dentro di me cominciò ad agitarsi ed io tornai a desiderare di conoscere paesi stranieri, di commerciare e far quattrini. Decisi allora di unirmi alla compagnia di quelle persone e, dopo aver comprato quanto poteva occorrere per un lungo viaggio, nonché grandi scorte dì merci preziose, mi recai a Bassora, dove m’imbarcai su una nave con quei mercanti che erano fra i maggiori della città. Confidando nell’aiuto di Allah Onnipotente, col favore dei venti propizi e di un mare tranquillo, navigammo nelle migliori condizioni da un’isola all’altra e da un mare all’altro, fino a che un giorno si levò un forte vento contrario che costrinse il capitano a gettare le ancore e a mettere la nave in panna per timore che potesse affondare in mezzo all’oceano. Noi tutti allora ci gettammo a terra e cominciammo a pregare l’Onnipotente, e mentre eravamo così occupati arrivò un colpo di vento più forte degli altri, che stracciò le vele in mille pezzi, ruppe la gomena dell’ancora e la nave affondò con tutto il suo carico, mentre noi ci trovavamo in balia delle onde. Come Dio volle, a un certo momento riuscii ad afferrare una tavola e insieme con me altri naufraghi e cominciammo a sbattere i piedi nell’acqua usandoli a mo’ di remi. Poi la tempesta si placò e noi vagammo sul mare immenso per tutto quel giorno e per la notte seguente. Al mattino i venti cominciarono. Di nuovo a soffiare e le onde a ingrossarsi, sì che alla fine fummo gettati sfiniti ed affamati su un’isola. Ci mettemmo a camminare lungo la spiaggia e trovammo grande abbondanza di erbe, e, in mancanza di meglio, le mangiammo per poterci ristorare e per tenerci in piedi. Dopo aver molto errato su quell’isola, scorgemmo in lontananza una casa. Ci avvicinammo ed ecco che dalla casa uscirono degli uomini nudi i quali, senza nemmeno salutarci e senza dire una parola, ci presero e ci portarono dal loro re. Questi, a cenni ci ordinò di sedere, quindi ci fece mettere davanti dei cibi che non avevamo mai visto in vita nostra. I miei compagni, spinti dalla fame, ne mangiarono ma io, sentendomi rivoltare lo stomaco, non volli toccarli, e fu questa una grazia d’Allah, perché dal fatto di non aver toccato quei cibi dipese la salvezza della mia vita. Infatti i miei compagni, non appena ebbero assaggiato quelle vivande, smarrirono la ragione, si comportarono come tanti stralunati e cominciarono a divorare il cibo come uomini posseduti da uno spirito maligno. Poi quei selvaggi diedero da bere ai miei compagni olio di noce di cocco e con lo stesso olio li unsero su tutto il corpo. E non appena i miei compagni ebbero bevuto di quell’olio strabuzzarono gli occhi e ricominciarono a mangiare come forsennati anche se non ne avevano voglia. Quando vidi ciò rimasi perplesso e mi preoccupai per i miei compagni; ma mi preoccupai anche per me stesso, a causa di quegli uomini nudi. Così mi misi ad osservarli attentamente e non mi ci volle molto per scoprire che si trattava di una tribù di maghi cannibali, il cui re era un orco. Tutti quelli che avevano la sventura di capitare nel loro paese, essi li acchiappavano e li portavano dal loro re, poi li nutrivano con quei cibi e li ungevano con quell’olio cosi che il loro ventre si dilatava smisuratamente e gli infelici cominciavano a mangiare senza posa e a causa di ciò perdevano la ragione e diventavano come idioti. Allora quei selvaggi ingozzavano i poveretti con quei cibi e con l’olio di cocco fino a che non erano diventati ben grassi, quindi li, sgozzavano e li arrostivano dandoli da mangiare al loro re. Gli altri, voglio dire gli altri selvaggi, si contentavano di mangiare la carne umana cruda. Quando ebbi fatto questa scoperta, mi sentii pieno di tristezza e di timore per la mia sorte e per quella dei miei compagni, tanto più in quanto vedevo, che la loro ragione vacillava e li abbandonava a mano a mano che essi ingrassavano, al punto che a forza di mangiare si abbrutirono completamente; e allora i selvaggi li affidarono a una specie di pastore, che ogni giorno li portava nei prati dove essi pascolavano come bestie. Quanto a me, mentre i miei compagni ingrassavano, io ero dimagrito per la fame e per la paura, la carne mi si era seccata sulle ossa ed ero diventato simile ad uno scheletro. Così nessuno si curò più di me e alla fine mi dimenticarono completamente. Approfittai quindi del fatto che nessuno mi prestava più attenzione e un giorno mi decisi a fuggire, poiché la vista dei miei compagni, diventati mentecatti e grassi come porci, mi era insostenibile. Camminai giorni e giorni nutrendomi di qualche erba che trovavo, fino, a che una mattina giunsi in vista di un gruppo di persone intente a raccogliere grani di pepe. Non appena costoro mi videro, mi si fecero incontro e mi chiesero chi fossi.

“Sappiate, brava gente,” risposi io, “che sono un povero straniero.” E raccontai loro la brutta avventura vissuta presso quei selvaggi. Allora costoro fecero le più grandi meraviglie e mi dissero: “Per Allah, quello che tu dici è meraviglioso! Ma come hai fatto a sfuggire a quei cannibali che infestano l’isola e divorano tutti quelli che cadono in loro potere?” Quando ebbi finito di raccontare loro tutti i particolari della mia avventura, essi. mi rifocillarono con buoni cibi, mi fecero riposare, quindi scendemmo sulla riva del mare, c’imbarcammo su una nave che era colà in attesa e arrivammo alla loro isola, dove mi condussero immediatamente dal loro sovrano. Questi mi accolse con molto onore, rispose affabilmente al mio saluto e volle sapere ogni particolare della mia avventura. Quando lo ebbi informato di tutto quello che mi era successo fin dal giorno in cui avevo lasciato Baghdad, egli espresse grande meraviglia per tante vicissitudini, poi ordinò che mi si portasse cibo a sufficienza ed abiti ed ogni cosa di cui potessi aver bisogno. Così mi rallegrai per la mia buona sorte e ringraziai la clemenza dell’Onnipotente. Poi cominciai ad andare in giro per la città, che trovai ricca e prospera, piena di mercanzie e di mercati dove si comprava e si vendeva. Trascorsi in tal modo qualche tempo fra la gente di quella città, amato e stimato da tutti, al punto da diventare uno degli uomini più onorati di quel regno. Ora, mentre trascorrevo così i miei giorni, notai che la maggior parte della gente di quel posto cavalcava bellissimi destrieri, ma li cavalcava a pelo e senza sella. Allora, meravigliato, chiesi al re: “Perché, signor mio, non cavalchi con una sella? E più comoda e dà maggior forza al cavaliere.” E il re mi disse: “Una sella? E che cosa è mai? Io non l’ho mai vista in vita mia né l’ho mai usata per cavalcare.” Allora io gli dissi: “Se tu permetti, signore, io ti costruirò una sella, e tu potrai constatare quanto è più comodo ed agevole cavalcare con essa.” “Fà pure,” mi disse il sovrano. Allora io gli chiesi di farmi dare del legno, del cuoio e della lana, poi cercai un abile carpentiere e gli ordinai di prepararmi con quel legno un arcione dopo avergliene fatto il disegno. Poi mi feci portare la lana, la cardai e ne feci un bel feltro di sottosella; poi, quando l’arcione fu pronto, vi adattai sotto il feltro e con il cuoio feci dei bei quartieri, delle cinghie e degli staffili. Alla fine chiamai un fabbro ferraio e mi feci fare due belle staffe. Quando tutto fu pronto, mi recai nelle stalle del re, scelsi il miglior cavallo e gli posi addosso la sella, quindi mi recai dal sovrano, il quale mi ringraziò, montò a cavallo e rimase assai contento di quella sella, sì che mi compensò generosamente per il lavoro che avevo fatto. Quando il visir di quel re vide la sella, mi chiese di fame una anche per lui. Poi, a mano a mano, tutti i grandi del regno, e gli ufficiali, e infine anche la gente comune vennero a chiedermi di fabbricar loro delle selle. Così:, con l’aiuto del carpentiere e del fabbro, mi dedicai a questa industria e in breve, tempo ammassai una considerevole fortuna, il che aumentò grandemente la stima da cui ero circondato e m’innalzò nel favore del re.

Ora avvenne che un giorno questo re mi mandò a chiamare e mi disse: “Tu ormai vivi presso di noi e sei diventato come uno di noi, e ci sei caro come un fratello. Ed è tanto l’affetto e la considerazione che abbiamo per te che non sopporteremmo di vederti partire; però io voglio da te una cosa alla quale dovrai ubbidire senza contraddirmi.” lo risposi: “O re, che cosa vuoi da me? Chiedilo, e ti assicuro che io non ti contraddirò in nulla, perché tale è il debito di riconoscenza che ho verso di te che io sono diventato come un tuo servo.” Egli disse: “Ho pensato di sposarti ad una donna che è giovane, bella, intelligente come nessun’altra, ed è tanto ricca quanto è bella; voglio che tu la sposi e prendi così stabile domicilio presso di noi, ed anzi voglio che tu vada ad abitare in uno dei miei palazzi. Perciò ti prego di non contraddirmi in questo mio desiderio.” Quando ebbi udito queste parole, rimasi vergognoso e confuso per tanta generosità e non seppi fare altro che inginocchiarmi e baciare la terra davanti a lui. Allora il re, senza porre indugio, chiamò il cadì e i testimoni e volle che fosse steso il mio contratto di nozze con una fanciulla appartenente a una famiglia fra le più nobili del reame; e costei era non solo di meravigliosa bellezza e di alto lignaggio, ma padrona anche di poderi e immobili. Poi il re mi regalò una grande e bella casa con schiavi e servi e mi assegnò un ricco appannaggio. Così io mi reputai il più fortunato degli uomini, anche perché, dopo aver conosciuto mia moglie, l’amai col più tenero amore e fui da essa ricambiato. E cominciammo a trascorrere i nostri giorni fra ogni agio e felicità. Ed io andavo spesso dicendomi: ‘Se mai tornerò in patria, la porterò con me.’ Ma quello che il destino riserva all’uomo è ineluttabile, e nessuno sa ciò che gli può accadere.

Mentre i miei giorni trascorrevano così sereni e lieti, Allah Onnipotente decretò la morte della moglie di un mio vicino. Poiché questi era un mio amico, io mi recai a casa sua e lo trovai abbattuto e depresso; dopo avergli fatto le mie condoglianze, cercai di consolarlo dicendogli: “Non affliggerti per colei che è nella grazia di Allah; sicuramente Iddio ti darà una moglie migliore,in cambio di questa, e, se Allah vuole, il tuo nome continuerà ad essere onorato finché tu vivrai, lungamente, su questa terra!” Ma a queste parole il vicino si mise a piangere ancor più amaramente e mi rispose: “Amico mio, come posso sposare un’altra donna, e come può Allah darmi una moglie migliore di quella che ho avuto se mi resta appena un giorno da vivere?” “Fratello mio,” gli dissi, “ritorna in te e smettila di preannunciare la tua morte, perché tu sei sano e stai in ottima salute.” “Amico mio,” continuò quello, “ti giuro che domani io morirò e tu mi rivedrai solo nel giorno della resurrezione.” Allora io gli dissi: “Ma si può sapere di che cosa stai parlando?” E quello mi rispose: “Oggi stesso seppelliranno mia moglie e seppelliranno anche me insieme con lei, perché è usanza di questo paese seppellire vivo il marito con la moglie se questa muore prima, e lo stesso fanno con la moglie nel caso che a morire prima sia il marito; e ciò si fa affinché nessuno possa godersi la vita dopo la morte del suo compagno.” “Per Allah,” esclamai io, “questa è una usanza fra le più barbare e insopportabili che abbia mai conosciuto!” Mentre così discorrevamo, ecco che arrivò una gran folla di gente e tutti cominciarono a condolersi con il mio amico per la moglie e per lui stesso. Poi misero la moglie in una bara e la portarono, insieme con il marito, fuori della città, fino a che giunsero in un luogo dove era l’imboccatura di una profonda caverna, chiusa con un grosso macigno. Tolsero il macigno dalla bocca della caverna e gettarono di sotto la bara con la defunta; poi legarono una corda, fatta con fibre di palma, alle ascelle del mio amico e lo calarono in fondo alla caverna, e quando questi fu giunto sul fondo si sciolse da sé la corda e quelli la ritirarono. Infine gli calarono giù una giara d’acqua e un po’ di cibo a mo’ di viatico. Poi chiusero la bocca della caverna con il macigno e tornarono in città lasciando il mio amico con la moglie morta. Quando vidi ciò mi dissi: “Per Allah, questa usanza è peggiore della morte che manda Iddio!” Così mi recai subito dal re e gli dissi: “Signore, perché seppellite insieme il vivo e il morto?” Ed egli mi rispose: “E questa una usanza che vige fra noi da tempo immemorabile. Così hanno sempre fatto i nostri antenati!” Allora io gli chiesi: “Dimmi una cosa, o re del nostro tempo. Se la moglie di uno straniero muore fra voi, seppellite vivo anche lo straniero?” E il re mi rispose: “Senza alcun dubbio; chiunque si trovi sulle nostre terre, deve sottostare alle nostre usanze.” Quando ebbi udito queste parole, la vescica del fiele fu lì per scoppiarmi dalla preoccupazione e dalla tristezza. Mi sentii pieno di angoscia, al punto da perdere quasi la ragione, e cominciai a temere che mia moglie morisse prima di me e mi seppellissero vivo. Tuttavia. dopo un po’ di tempo ripresi animo consolandomi col pensiero che forse sarei morto prima io, dal momento che nessuno sa chi dovrà morire per primo. Infine, le occupazioni della vita di ogni giorno mi distrassero e non pensai più a questa faccenda.

uttavia non trascorse molto tempo e un giorno mia moglie si ammalò e dopo qualche poco morì. Allora il re e quasi tutti gli abitanti di quella città vennero a casa mia a condolersi con me e con la famiglia di mia moglie e molti cercarono di consolarmi per la sorte che mi attendeva. Poi vennero le donne che lavano i cadaveri e lavarono ed abbigliarono mia moglie e le misero indosso le vesti e i gioielli più preziosi, quindi la deposero nella bara e la portarono nel luogo che ho detto, dove scoprirono l’imboccatura della caverna. Quando ebbero buttato la bara in fondo alla caverna, i parenti di mia moglie e i miei amici mi si fecero intorno cercando di consolarmi per la mia morte. Ma io continuavo a gridare: “Nel nome di Allah Onnipotente, come è possibile che sia sancito dalle leggi seppellire il vivo con il morto? Io sono straniero, non sono del vostro paese, e non posso sottostare alle vostre usanze. Se avessi saputo questa cosa, non mi sarei sposato con una delle vostre donne!” Ma quelli non prestarono attenzione alle mie parole. Mi presero, mi legarono una fune sotto le ascelle e mi calarono in fondo alla grotta, insieme con un’anfora d’acqua e un po’ di cibo, secondo l’usanza. Quando ebbi toccato il fondo, dall’alto mi dissero di sciogliere la fune, ma io mi rifiutai di farlo, e allora quelli gettarono di sotto l’altro capo della fune, poi chiusero l’imboccatura della caverna e se ne andarono per i fatti loro. Io mi guardai intorno e vidi che mi trovavo in un’ampia caverna, piena di scheletri e di cadaveri che esalavano un puzzo ammorbante mentre l’aria risuonava dei gemiti dei moribondi. Allora non potei fare altro che biasimarmi per quello che avevo fatto dicendo: “Per Allah, io merito tutto ciò che mi è capitato e ciò che mi capiterà! Quale maledizione mi ha indotto a prendere moglie in questa città? Non vi è forza né potenza se non in Allah, il Glorioso, il Grande! Come ho detto tante volte, sono sfuggito da un pericolo per cadere in un pericolo peggiore. Per Allah, questa è davvero una morte abominevole! Volesse il cielo ch’io potessi morire una morte onorevole, degna di un uomo e di un musulmano. Sarebbe stato meglio se fossi morto in mare o perito fra le montagne! Meglio assai sarebbe stato che non finire in un modo così miserando!” E continuai a gemere e a lamentarmi per la mia sorte, poi mi gettai a terra, sulle ossa dei morti, implorando l’aiuto di Allah, fino a che i morsi della fame non mi attanagliarono lo stomaco e la sete mi bruciò la gola. Allora mi alzai e a tastoni cercai il pane e ne presi un morso; poi bevvi una sorsata d’acqua. Il giorno dopo cominciai ad esplorare quella caverna e vidi che si estendeva in ogni direzione con una grande quantità di cunicoli e che dovunque era cosparsa di ossa di morti o di corpi in putrefazione. Alla fine trovai una nicchia. nella quale mi rifugiai, un po’ lontano dai cadaveri che erano stati gettati più recenti.

Rimasi cosi parecchi giorni, fino a che le mie provviste cominciarono a scarseggiare. Eppure mangiavo solo una volta al giorno e talvolta anche ogni due giorni e bevevo il meno possibile, per paura che l’acqua e il cibo mi venissero meno prima ch’io morissi. Un giorno, che me ne stavo così a riflettere sui miei tristi casi e a chiedermi come avrei fatto quando il pane e l’acqua mi fossero venuti meno, ecco che il macigno che copriva l’imboccatura della caverna venne rimosso e la luce piovve su di me. Allora mi dissi: ‘Che cosa sarà mai? Forse hanno portato un altro cadavere.’ E difatti vidi che di lì a poco calarono giù un uomo morto, e poi una donna viva, la quale piangeva e si lamentava; e calarono giù anche una provvista, più abbondante; del solito, di pane e di acqua. La donna non mi vide e quelli di sopra chiusero l’apertura della grotta e se ne andarono. Allora, impugnata a mo’ di mazza la tibia d’un morto, mi avvicinai di soppiatto alla donna e la colpii sul capo. Quella gettò appena un breve grido e cadde svenuta; la colpii una seconda e una terza volta fino a che morì; allora m’impadronii del suo pane e della sua acqua e frugandole addosso mi accorsi che era carica di gioielli e di monili d’oro, perché era abitudine di quella gente seppellire le donne con tutte le loro gioie. Portai i viveri nel mio cantuccio e mi cibai con quelli prendendone solo quel tanto che era necessario per mantenermi in vita, perché temevo che se fossero finiti troppo presto sarei morto di fame e di sete. Tuttavia non persi mai la fiducia nell’Onnipotente Allah. Rimasi così in quella caverna per molto tempo, uccidendo tutti gli esseri viventi che vi venivano calati e nutrendomi con le loro provviste, fino a che un giorno, mentre dormivo, fui svegliato da uno strano rumore, come di qualcuno che frugasse fra i cadaveri in un angolo della caverna. ‘Che cosa sarà mai?’ mi dissi. Balzai in piedi e, afferrata la tibia, mi avvicinai al punto da cui veniva il rumore. Non appena la creatura che aveva provocato quel rumore si accorse di me, fuggì via verso la parte interna della grotta, e allora capii che si trattava di un animale selvatico. Mi inoltrai anch’io verso l’estremità dell’antro, fino a che vidi lontano un punto luminoso, non più grande di una stella, che appariva e spariva. Continuai a camminare e, a mano a mano che avanzavo, il punto diventava sempre più grande e più luminoso, fino a che fui sicuro che si trattava di un’apertura nella roccia che conduceva all’aperto; allora mi dissi: ‘Senza dubbio ci deve essere una ragione per questa apertura: o è la bocca di una seconda caverna, simile a quella nella quale sono stato calato, oppure è una fessura naturale della roccia”.

Quando arrivai al punto da cui proveniva la luce mi accorsi che si trattava di una breccia nel fianco della montagna, che gli animali selvatici avevano allargato scavando in modo da potere entrare e uscire liberamente e divorare i cadaveri. Quando vidi tutto questo, l’animo mio si rallegrò, mi tornò la speranza e fui certo di poter sopravvivere. Così, come in sogno, allargai quella breccia in modo da poterci passare e uscii all’aperto, trovandomi sul pendio di un’alta montagna che guardava il mare e che da quella parte impediva ogni accesso all’isola, così che da quel punto della costa era impossibile raggiungere la città. Lodai Iddio e lo ringraziai rallegrandomi immensamente per la mia salvezza. Poi, attraverso quel buco, ritornai nella grotta e portai fuori tutte le provviste che avevo messo da parte e presi anche alcuni vestiti dei morti; dopo di che raccolsi le collane di perle, e i gioielli e i monili d’oro e d’argento e ogni altro ornamento di valore che potei trovare sui cadaveri; usai le vesti dei cadaveri per fare dei fagotti e portai tutta questa roba fuori, sul fianco della montagna, davanti al mare, dove mi stabilii alla bell’e meglio intendendo aspettare colà fino a quando l’Onnipotente si fosse degnato inviarmi un aiuto sotto forma di una nave di passaggio. Ogni giorno tornavo nella caverna. e quando trovavo degli esseri viventi seppelliti vivi colà, li uccidevo, uomini o donne che fossero, mi impadronivo del loro cibo e dei loro gioielli, che trasportavo nel mio covo a picco sul mare. Rimasi in quel posto parecchio tempo, continuando sempre a riflettere sui miei casi, fino a che un giorno vidi in mezzo al mare una nave di passaggio. Presi allora un pezzo di stoffa bianca che avevo con me, la legai a un bastone e mi misi a correre su e giù facendo dei segnali e gridando, fino a che l’equipaggio della nave, udendo le mie grida, mi scorse e mandò a terra una barca a prendermi. Quando la barca fu vicina alla riva, i marinai mi chiamarono dicendo: “Chi sei tu, e come mai sei arrivato su questa montagna dove in vita nostra non abbiamo mai visto alcuno?” lo risposi: “Sono un onesto mercante che ha fatto naufragio, ma mi sono salvato e ho salvato con me una parte dei miei averi aggrappandomi a un relitto della nave; con la benedizione di Allah e grazie alla mia forza e alla mia abilità, ho preso terra in questo luogo, dove sono rimasto ad aspettare che qualche nave di passaggio si accorgesse di me e mi prendesse a bordo.” Allora quelli mi fecero salire sulla barca insieme con i miei fagotti di gioielli e di preziosi e tornarono verso la nave, dove il capitano mi disse: “Come mai un uomo si trovava in quel luogo, su quella montagna, dietro la quale sorge una grande città? Per tutta la vita non ho fatto altro che navigare questi mari e sono passato e ripassato più volte davanti a quelle rocce, eppure non vi ho mai visto alcun essere vivente, fatta eccezione per gli animali selvatici e gli uccelli.” Io gli ripetei la storia che avevo già raccontato ai marinai, ma non gli dissi nulla di quello che mi era capitato nella città e nella caverna per timore che sulla nave vi fosse qualche isolano. Presi quindi alcune delle perle migliori che avevo con me e le offrii al capitano dicendo: “Signore, tu mi hai tratto in salvo da quella montagna. lo non ho con me denaro contante, ma ti prego di accettare queste in segno di gratitudine per la tua gentilezza.” Ma il capitano rifiutò di accettare alcunché da me dicendo: “Quando troviamo un naufrago sulla costa o su un’isola lo prendiamo a bordo e gli diamo da mangiare e da bere, e se è nudo lo rivestiamo; ma non accettiamo niente da lui, anzi, quando raggiungiamo un porto sicuro, lo facciamo scendere a terra regalandogli un po’ del nostro denaro e lo trattiamo gentilmente e caritatevolmente per l’amore di Allah Altissimo.” Allora io pregai perché la sua vita fosse lunga e felice e mi rallegrai dello scampato pericolo, perché ogni volta che pensavo al momento in cui ero stato calato nella grotta insieme con mia moglie morta non potevo fare a meno di rabbrividire d’orrore.

Continuammo in tal modo il nostro viaggio, navigando da isola a isola e da mare a mare, fino a che, come volle Allah, arrivammo sani e salvi nella città di Bassora, dove io mi trattenni qualche giorno e proseguii poi per Baghdad. Qui, con grandissimo piacere, ritrovai il mio quartiere e la mia casa e fui subito circondato da familiari e da amici che si rallegrarono con me per la mia salvezza. Rinchiusi nelle mie casse tutto ciò che avevo portato con me, diedi elemosine ai poveri e rivestii le vedove e gli orfani. Poi pensai a godermi la vita tranquillamente. Queste furono le avventure più interessanti del mio quarto viaggio. Ma domani, se vorrete tornare tutti a casa mia, vi racconterò quello che mi accadde nel quinto viaggio, e vi assicuro che si trattò di casi più incredibili e meravigliosi di quelli che avete ascoltato finora.”

- Fiaberella
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