Zelinda e il mostro
C’era una volta,
un pover’uomo che aveva tre figliole; e siccome tra queste la minore era anche la più dolce di natura, garbata e bella, le sorelle maggiori l’avevano in antipatia, mentre il padre le voleva un bene dell’anima.
Accadde un gennaio che in un paese vicino si tenesse una grande fiera, e il pover’uomo decise di recarvisi a fare provviste per mandare avanti la famiglia, e prima di partire domandò alle figlie se desideravano qualche regalo, che ovviamente egli potesse però permettersi di comprare: Rosina chiese un vestito, Marietta uno scialle, mentre Zelinda si accontentò di una rosa.
Il pover’uomo, il giorno dopo, si vestì e uscì di casa, e arrivato alla fiera, subito fece le compere programmate, e non gli fu difficile trovare il vestito e lo scialle per le figlie maggiori, ma riguardo alla rosa per Zelinda, nonostante la cercò dappertutto, non riuscì a trovarla, ma siccome desiderava a tutti i costi accontentare la tanto amata figliola, prima di rientrare si mise alla ricerca nei dintorni, e, cammina, cammina, ecco che arrivò davanti a un bel giardino, tutto circondato da un’alta muraglia; il cancello, però, era socchiuso, allora, lo spinse in là e piano piano entrò a vedere.
Quel giardino era carico di ogni sorta di fiori e piante, e in un cantuccio c’era un bellissimo e alto cespuglio di rose sbocciate.
Si guardò intorno attentamente, ma non sembrava ci fosse anima viva, alla quale chiedere in pagamento o in regalo una rosa, così il poveretto, senza pensarci un attimo, allungò una mano verso il cespuglio rigoglioso e colse una rosa per la sua Zelinda.
Misericordia!
Appena ebbe staccato il gambo del fiore, ecco udire un gran fracasso e improvvisamente scaturirono vampe di fuoco dal terreno, ed ecco che sbucò fuori un Mostro terribile che sembrava un drago, che fischiava forte, e tutto arrabbiato e furibondo, si scatenò subito contro il povero cristiano dicendogli: “Temerario! Cos’hai fatto! Hai osato toccare la mia pianta di rose, e ora devi morire, subito!”
Il povero disgraziato, mezzo morto dalla paura, si mise a piangere e a raccomandarsi in ginocchio, chiedendo perdono per lo sbaglio commesso, e si affrettò a spiegare per filo e per segno tutta la faccenda del perché e del percome era giunto e lì e aveva colto la rosa, e infine lo pregò: “Vi prego, lasciatemi andare, che ho famiglia, e se manco io, per i miei figli è finita.”
Ma il Mostro, incattivito più che mai, rispose: “Senti, qualcuno deve morire. O muori tu, o la ragazza che voleva la rosa; se non vuoi morire tu, portamela qui, altrimenti ti ammazzo qui in questo istante.”
E non ci fu verso di persuaderlo in alcun modo, né con le preghiere, né con i pianti; il Mostro era irremovibile e rimase fermo sulla sua decisione, e non avrebbe lasciato andare via l’uomo, se questi prima non gli avesse promesso di portargli lì sua figlia Zelinda.
Figuratevi con che animo il povero padre rientrò a casa sua!
Consegnò i regali alle figlie maggiori, e la rosa a Zelinda, ma aveva un viso stravolto e pallido come un cencio, sicché le figlie subito gli domandarono impaurite che cosa gli era successo.
Il padre dapprima non voleva dire nulla, ma alla fine, piangendo a calde lacrime vuotò il sacco su quel viaggio disgraziato e raccontò del patto fatto con il Mostro in cambio della vita: “Insomma,” esclamò, “uno di noi due finirà per forza mangiato vivo, o io o la povera Zelinda.”
A quelle parole, le due sorelle maggiori si sfuriarono contro la sorella.
“Eccola lì” dicevano, “la smorfiosa, la capricciosa! Ci andrà lei dal Mostro, lei, che ha voluto a tutti i costi la rosa, la grulla! Il babbo deve restare con noi.”
A tutti questi improperi Zelinda, senza scomporsi, rispose calma: “È giusto che paghi chi ha sbagliato; andrò io dal Mostro, sì, babbo, portatemi al giardino e che sia fatta la volontà del Signore.”
Dopo molte discussioni e contrasti, dove ognuno diceva accoratamente la sua, tutti furono d’accordo che Zelinda sarebbe stata portata dal Mostro, dopodiché il padre l’avrebbe lasciata al suo destino, e così fecero.
La mattina dopo, Zelinda e il babbo, il quale era tutto disperato e addolorato, si misero in cammino, e sull’imbrunire arrivarono al cancello del giardino, entrarono, e come al solito non apparve sul momento anima viva, ma videro, al contrario, un gran palazzo signorile illuminato e con le porte spalancate; sicché, dunque, i due viaggiatori arrivarono all’androne, e subito quattro statue di marmo si mossero dal piedistallo con in mano delle torce accese e li accompagnarono su per le scale, fino a una grande sala, dove nel bel mezzo c’era una tavola apparecchiata con ogni ben di Dio.
I due, che avevano una gran fame, senza fare troppi complimenti, si accomodarono a tavola e cominciarono a mangiare; quando furono sazi, le solite statue con i lumi accesi li condussero in due belle camere da letto pronte per gli ospiti, misero i due a letto e diedero loro la buona notte.
Zelinda e il babbo erano talmente stanchi che quando toccarono il letto crollarono subito e dormirono di un sonno profondo fino al mattino.
Il mattino dopo, all’alba, i due si svegliarono e si alzarono, e subito due mani invisibili servirono loro una colazione di tutto punto; poi scesero giù nel giardino, e insieme si misero alla ricerca del Mostro, e, arrivati al cespuglio delle rose, lo videro sbucare fuori con tutta la sua terribile bruttezza.
A quella vista, Zelinda impallidì e le gambe tremarono come foglie dalla paura, ma il Mostro la guardò fisso con quei suoi occhiacci infuocati e disse al pover’uomo: “Sta bene: hai mantenuto la parola e sono contento, ora però, vattene, e lasciami qui la ragazza.”
A questo comando, al vecchio parse di morire, e anche la povera Zelinda, tutta scossa, se ne stava lì inebetita e stava per piangere, ma a nulla servì pregare, perché il Mostro fu duro come una roccia e al poveretto non restò altro da fare che andarsene via, lasciando la sua cara figliola al suo destino.
Rimasti soli, inaspettatamente il Mostro si affrettò a fare alla ragazza carezze e complimenti, e si adoperò tanto, che riuscì quasi a sembrare garbato.
Da quel momento, non passò giorno che lui si dimenticasse di lei, e stava attento a che non le mancasse nulla, e ogni giorno, discorrendo con lei nel giardino, le domandava sempre: “Zelinda, mi vuoi bene? Vuoi diventare mia moglie?” Ma la ragazza rispondeva sempre: “Bene ve ne voglio, sì, ma non acconsentirò mai a sposarvi.”
E il Mostro allora si dimostrava molto addolorato e così raddoppiava carezze e garbo, e, sospirando forte a suo modo diceva: “Eppure, Zelinda, se tu mi sposassi, accadrebbero cose meravigliose, che però non ti posso rivelare, fino a quando non acconsentirai di diventare la mia sposa.”
Zelinda, benché in fondo non si trovasse scontenta di vivere in quei bei luoghi dove era trattata da regina, di sposare il Mostro non se la sentiva proprio, perché era brutto come una bestia, e alla puntuale domanda di matrimonio di lui, aveva sempre pronta la stessa risposta.
Accadde però un giorno che il Mostro chiamò in fretta e furia Zelinda e le disse: “Senti, Zelinda, se tu non acconsenti a sposarmi, tuo padre è condannato a morire. Già sta male e si trova in fin di vita, e tu non lo potrai nemmeno rivedere. Bada che ti sto dicendo la verità.”
E, tirato fuori uno specchio magico, con il quale mostrò a Zelinda il babbo moribondo nel suo letto.
A quella vista, Zelinda, disperata dal dolore, cominciò a urlare: “Oh, no! Salvate il mio babbo, per carità! Fate almeno che io lo possa riabbracciare prima che muoia. Sì, ve lo prometto, sarò vostra moglie e compagna, senza indugio, ma il babbo, il babbo, salvatemelo dalla morte.”
Appena Zelinda ebbe proferito queste parole, il Mostro si trasformò in un bellissimo giovane.
A quel mutamento Zelinda rimase stupefatta; il giovane la prese allora per mano e disse: “Sappi, cara Zelinda, che io sono il figlio del re delle Melarance. Una vecchia strega toccandomi mi trasformò in quel Mostro terribile di prima e mi condannò a starmene isolato in quel cespuglio di rose in quello stato, fino a quando una bella ragazza non acconsentisse a diventare mia sposa. Per la tua bontà, Zelinda, sono ritornato uomo come mi vedi ora. Andiamo subito dal tuo buon babbo, che a quest’ora sarà già guarito, e dopo celebreremo il nostro legittimo matrimonio, se avrò il permesso di mio padre”.
Zelinda e il bel giovane, senza indugiare ancora, partirono insieme a cavallo, e quando ebbero rivisto il padre di lei, tutti insieme si recarono nel regno delle Melarance, dove il re, alla vista del suo figliolo, che già credeva morto da un pezzo, mancò poco che non svenisse dalla gioia.
Il giovane raccontò al re per filo e per segno tutti gli eventi, ma alla notizia delle nozze fissate con Zelinda, il re rimase molto turbato, e sostenne che per quanto si sentisse profondamente obbligato alla giovane, per aver liberato suo figlio dal maleficio, non poteva acconsentire a quella richiesta, poiché da molto tempo ormai aveva dato la sua parola di re, e aveva promesso suo figlio alla figlia del re di Prussia.
E siccome era evidente che non c’era modo di smuovere il re dalla sua idea, Zelinda e il principe decisero di scappare insieme durante la notte, a costo di vagare per il mondo in cerca di fortuna, pur di non lasciarsi più; e infatti, quella notte, vestiti di stracci, uscirono a piedi dal palazzo senza farsi sentire da nessuno, e si misero in cammino attraverso la campagna.
Dopo aver viaggiato tutto il giorno senza meta, Zelinda e il suo sposo sull’imbrunire entrarono in una selva dove si persero: gira di qua, gira di là, non ci fu verso di ritrovare la strada.
A un certo punto cominciarono a darsi per vinti, quando da lontano si intravide un lumicino; a tentoni si diressero verso quella luce, fino a che con grande fatica giunsero alla porta di una spelonca, e bussarono forte.
Di lì a poco, s’affacciò alla finestra una donna, con due zanne di porco che sporgevano dalla bocca, con una vociaccia rauca, e vociò: “Chi siete voi? Cosa volete a quest’ora?”
Rispose il principe: “Siamo due poveretti, marito e moglie, che hanno smarrito la via in questa foresta. Dateci per carità qualcosa da bere e da mangiare, e ospitateci per la notte, perché siamo esausti per la fame e per la stanchezza.”
“Oh, sciagurati! Questa è la casa dell’Orco, e io sono sua moglie. Scappate, presto, che l’Orco sta per tornare, e se vi trova qui, per voi due è finita; vi mangerà in un boccone.”
“Ma dove possiamo andare?” rispose il principe, “Cercate piuttosto di nasconderci da qualche parte, e domattina sul far del giorno ce ne andremo senza disturbare nessuno.”
Disse l’Orchessa: “Ma scherzate, è impossibile. Vedete lì da quella parte? C’è una gabbia d’oro tutta zeppa di sonagli, e c’è chiuso dentro un uccellino che svolazza e fa la spia: e nella stalla c’è un cavallo con una sonagliera, e anche lui sbatte gli zoccoli, scuote il capo e fa la spia. Se qualche cristiano entra in casa, l’Orco se ne accorge subito, perché tutto quello scampanellio e quel tramestio lo avvertirebbero immediatamente: l’Orco vi cercherebbe ovunque, e appena vi trovasse, sareste spacciati.”
“E pazienza,” rispose il principe, “morti per morti, apriteci e lasciateci entrare, e che accada quel che accada.”
L’Orchessa, che aveva capito che quei due pellegrini non volevano ripartire, e desiderosa di far loro un po’ di bene, s’avviò giù per la scala e aprì l’uscio, e nel mentre che lei si sbrigava a rimuovere catenacci su catenacci e saliscendi messi li per sprangare bene la porta, ecco che una vecchietta tutta grinze si presentò davanti a Zelinda e al principe, e svelta svelta, disse loro: “Prendete questo cotone, questi confetti e queste focacce: quando sarete dentro, tappate con il cotone tutti i sonaglini della gabbia e del cavallo, i confetti dateli da beccare all’uccellino, e le focacce come cena al cavallo, così loro se ne staranno tranquilli: e mentre l’Orco sarà a letto a dormire, voi svelti scapperete e ruberete la gabbia con l’uccellino, poi quando sarete in mezzo alla foresta, ammazzate l’uccello e spaccategli la testa, perché dentro c’è un uovo, e bisogna romperlo con una pietra, e una volta rotto l’uovo, l’Orco morirà, poiché la sua vita dipende appunto da quell’uovo”
Ciò detto, la vecchina scomparve nel nulla.
Nel frattempo la porta della spelonca fu aperta, e l’Orchessa fece entrare quelle due povere anime smarrite, li portò in cucina, dove poterono rifocillarsi alla meglio, e poi li nascose nella stalla, e li coprì per benino con fieno e paglia, raccomandandosi di starsene zitti zitti e di non far rumore.
Rimasti soli, i due in mezzo alla paglia stavano già rimuginando su come fare per mettere in pratica il suggerimento della vecchina, quand’ecco l’Orco, e subito prese subito a cantare e a scuotere la gabbia, e il cavallo a nitrire e a far sobbalzare la sonagliera a salti.
L’Orco, insospettito da quel tramestio, cominciò a rizzare il naso, e fiutando intorno, borbottava tra le zanne:
“Ucci, ucci,
sento odor di Cristianucci:
o ce ne sono, o ce ne sono stati.”
Poi disse alla moglie: “Moglie, qui c’è carne umana, vero? Dove l’hai nascosta?”
L’Orchessa però fece l’indiana e disse: “Ma che! Stasera, marito mio, hai bevuto un po’ troppo e il tuo naso t’inganna. Vai a letto, che è già ora di dormire.”
L’Orco in realtà non era molto convinto di quel che gli aveva detto la moglie, e grugnì alquanto, e se ne stette un po’ lì, indeciso tra l’andarsene a dormire e il mettersi a frugare dappertutto, ma siccome non si reggeva più in piedi, finì col dire: “Basta, per stasera sono stanco e non voglio impazzire a cercare la carne umana. Lo farò domani, domani guarderò bene in tutti i buchi, e se li trovo, che bella colazione!”
E preso il lume, salì in camera sua e si ficcò a letto, e dopo poco russava tanto forte che l’avrebbero sentito a un miglio di distanza.
Quando l’Orco fu assopito, pian piano il principe e Zelinda uscirono dal loro nascondiglio, e, buttate le focacce al cavallo, i confetti nella gabbia, e tappati tutti i sonagli, senza esitare, desiderosi com’erano di fuggire, spalancata la porta della spelonca, se pur con molta fatica, agguantarono la gabbia e l’uccellino, e via corsero attraverso la foresta. Ma come la gabbia fu fuori della porta, l’Orco si svegliò di soprassalto e gridò: “Mi rubano la vita!” e saltato giù dal letto, corse dietro ai ladri, e siccome lui aveva gambe lunghe e un olfatto sopraffino, li raggiunse in un baleno, al ché i due giovani, impauriti, nel sentirselo alle costole, mollarono per terra la gabbia e badarono solo a nascondersi nella macchia.
L’Orco si accontentò allora di recuperare la gabbia, la quale gli fece subito tornare le forze, e, rientrato nella spelonca, sprangò nuovamente a catenacci la porta. In quel mentre il figlio del re delle Melarance e Zelinda se ne stavano ancora accovacciati nella macchia, ansimanti per la corsa fatta e mezzi morti dalla paura, quando tutt’a un tratto riecco apparire la vecchina grinzosa, che disse loro: “Oh picchiatelli! Allocchi! Non siete stati capaci di fare la vostra fortuna. Se l’Orco fosse morto, i suoi tesori, di cui è pieno, ora sarebbero vostri. Su, forza e coraggio, tornate stasera a casa dell’Orco e fate come vi ho insegnato. Svelti! Chi non risica non rosica.”
Ma i due non si sentivano molto desiderosi di rischiare un’altra volta la vita, ma la vecchina gliene disse tante e poi tante, che alla fine sul far della sera riandarono a picchiare alla casa dell’Orco, e dopo le solite cerimonie della sera prima, l’Orchessa aprì loro la porta, li fece entrare, li ristorò e li nascose di nuovo nella paglia e nel fieno nella stalla.
Ma facciamo un passo indietro, perché bisogna sapere che la vecchina grinzosa questa seconda volta aveva regalato al figlio del re delle Melarance una boccettina, che conteneva una medicina, e se l’Orco l’avesse annusata, avrebbe subito perso l’olfatto.
Dunque, quando l’Orco si accorse che in casa c’era gente, ricominciò a fiutare e a borbottare tra i denti la sua solita strofa:
“Questa volta non me la dai a bere, cara moglie. Non sarò così mammalucco stavolta. Dammi il lume, che vado a cercare subito prima di mettermi a letto. Qui ci sono dei cristiani, e se li trovo, me li pappo in un boccone.”
Fruga di qui, fruga di là, alla fine l’Orco arrivò alla stalla: ma il giovanotto, lesto lesto, gli fece annusare la boccetta, e subito l’Orco perse la bussola; non trovando niente, pensò di mettersi a letto, dove si addormentò subito.
Quando lo sentirono russare, i due uscirono dal nascondiglio, presero la gabbia e via a gambe levate verso la foresta.
L’Orco gli corse subito dietro, ma il giovane, tirato fuori l’uccellino dalla gabbia, con un sasso gli sfasciò il cervello, spaccò l’uovo e l’Orco stramazzò a terra.
Allora Zelinda e il principe tornarono alla spelonca, e, caricato il cavallo dell’Orco con tutto il suo tesoro, ripresero il cammino per il regno del padre di lui, dove, al loro ritorno, il re li ricevette con molta allegria, e viste tutte quelle ricchezze, perdonò suo figlio e finalmente acconsentì a che sposasse la bella Zelinda.
Gli sposi, felici e contenti, camparono lunghi anni insieme, e succedettero al trono alla morte del re, e lì godettero e se ne stettero e a me nulla dettero.
- Fiaberella